Diaz accettò una sedia e una tazza. Rostock sorbì rumorosamente il tè, con gli occhi chiusi e la fronte aggrottata. Nel suo tè doveva esserci uno speciale stimolante perché non passò molto che ridivenne più umano. Tornò a riempire le tazze, offrì le sigarette e si lasciò andare contro lo schienale del divano con un sospiro.

— Forse vi farà piacere sapere — disse — che il terzo scontro sarà l'ultimo. Rifiuteremo di continuare a combattere, e andremo invece a raggiungere un'altra flottiglia vicino a Pallas.

— Evidentemente, vi conviene — precisò Diaz.

— Be', è naturale. Ho calcolato maggiori probabilità di successo nella fase decisiva, se seguiremo una strategia di... Ma non importa, per ora.

Diaz si protese, col cuore che batteva forte. — Allora, questa è una nave ammiraglia. Lo avevo immaginato.

Gli occhi azzurri lo studiarono attentamente. — Se vi darò altre informazioni — disse Rostock con calma, ma tendendo i muscoli della mascella — dovete accettare le condizioni che vi ho posto nel nostro primo incontro.

— Le accetto — proruppe impetuosamente Diaz.

— Mi rendo conto che avete accettato solo con la speranza di poter passare il segreto ai vostri compatrioti dichiarò Rostock. — Ma potete scordarvene: non avrete mai l'occasione.

— E allora perché mi volete parlare? Non vorrete fare di me un Unasiatico, generale. — Diaz decise di dare alle sue parole un tono fermo e dignitoso. — Vi rispetto, ma ho giurato fedeltà a qualcun altro.

— D'accordo. Non spero né ho intenzione di farvi cambiare idea, o almeno di farvi passare dalla nostra. — Rostock trasse una profonda boccata dalla sigaretta, emise il fumo dalle narici, e ammiccò. — Il microfono è chiuso — disse. — Non possono sentirci, a meno che non gridiamo. Devo avvertirvi che se tenterete di divulgare quello che sto per dirvi a chiunque dei miei, non solo negherò ma ordinerò di espellervi dal portello esterno. È una cosa di capitale importanza.

Diaz si fregò le mani sui calzoni. Aveva le palme sudate.

— Va bene — disse.

— Con questo, non è che voglia intimidirvi, capitano — si affrettò a dire Rostock. — Vi offro solo amicizia. E in seguito, forse, pace. — Stette a lungo con gli occhi fissi sulla parete, prima di tornare a posare lo sguardo su Diaz. — Cominciate voi. Domandatemi quel che volete.

— Uh... — farfugliò Diaz, che si sentiva come se fosse stato appoggiato a una porta che fosse stata improvvisamente socchiusa. — Uh... be', è vero? È vero che questa è una nave ammiraglia?

— Sì. Adempie alle identiche funzioni di una corazzata che abbia le stesse mansioni, eccetto che partecipa di rado ai combattimenti. I vantaggi tattici sono ovvi. Un vascello più piccolo e leggero può muoversi con maggior scioltezza, e di conseguenza è possibile dirigerlo meglio. Inoltre, se ci muoviamo con sufficiente cautela, è improbabile che ci scoprano e ci colpiscano. Le corazzate hanno un armamento massiccio, soprattutto per evitare i missili capaci di distruggere lo stato maggiore che si trova a bordo. Navi di quella classe riescono a evitare che succeda, schivando per prima cosa l'attacco.

— Ma il vostro calcolatore!... Dovete averne creato uno piccolo e perfetto come un pilota automatico. Io ero convinto che la miniaturizzazione fosse una nostra specialità.

Rostock scoppiò a ridere.

— E poi vi occorrerebbero molti più uomini di quelli che compongono l'equipaggio di questa nave! — protestò Diaz. — Non è così? — terminò, con minor foga.

Rostock scosse la testa. — No — rispose serio. — Col mio sistema non è necessario. Sono io il calcolatore.

— Cosa?

— Guardate. — Rostock si tolse il cappuccio.

La pelle del cranio era priva di capelli: non calva, ma depilata. Vi erano inserite una dozzina di piastre metalliche, da cui sporgevano attacchi. Rostock indicò con un gesto l'ufficio. — Il resto di me è là dentro — disse. — Basta che inserisca le spine negli attacchi, e divento... no, non parte del calcolatore. È il calcolatore che diventa parte di me.

Tacque, fissando il pavimento. Diaz non osava muoversi, finché, consumandosi, la sigaretta non gli bruciò le dita e fu costretto a schiacciare il mozzicone. L'apparecchio pulsava intorno a loro. Il quadro di Monet, che rappresentava degli alberi su cui giocavano chiazze di sole, pareva un panorama visto in fondo a un tunnel.

— Considerate il problema — riprese Rostock. a bassa voce, dopo un silenzio prolungato. — Nonostante tutte le chiacchiere inutili fatte a proposito dei cervelli giganteschi, i calcolatori non pensano, se non, forse, al livello degli idioti. Si limitano a eseguire operazioni logiche, elaborando simboli, secondo le istruzioni che vengono loro impartite. È stato dimostrato, da molto tempo, che esistono infinite categorie di problemi che nessun calcolatore è in grado di risolvere: questa categoria rientra nell'ambito del teorema di Godel, che può essere risolto solo mediante il processo non-logico della creazione di un linguaggio del metallo. La creazione non è un procedimento logico e i calcolatori non creano.

"Inoltre, come sapete, più un calcolatore è grande, più richiede un gran numero di persone addette a eseguire le operazioni, che vanno dalla raccolta e codificazione dei dati, alla programmazione, alla ritraduzione delle soluzioni in termini pratici, all'adattamento della risposta convenzionale al problema attuale. Pure, il cervello umano esegue di continuo queste operazioni, perché è creativo. Per di più, i calcolatori maggiormente progrediti sono pesanti, ingombranti e delicati. Ricorrono alla criogenia e ad altri sotterfugi simili, ma ciò richiede un imponente apparato ausiliario. Il cervello umano pesa circa un chilo, è adeguatamente protetto dal cranio che lo racchiude e richiede non più di un quintale di apparato esterno: il corpo.

"Non sono un mistico. Non c'è motivo per cui la capacità di creare non venga un giorno o l'altro duplicata in una struttura artificiale. Ma sono convinto che tale struttura somiglierà molto a un organismo vivente: sarà, in poche parole, un organismo vivente. La vita ha impiegato miliardi d'anni per sviluppare queste tecniche.

"Ora, se il cervello possiede tali vantaggi, perché ricorrere ai calcolatori? Naturalmente, per eseguire un lavoro non creativo, per cui il cervello non è adatto. Il cervello riesce ad afferrare con chiarezza un problema, poniamo, di orbite, masse e tattiche, e lo formula sotto forma di equazioni matrici. Quindi il calcolatore esegue con fulminea rapidità le innumerevoli idiote operazioni di calcolo occorrenti per giungere a una soluzione numerica. Quello che noi Unasiatici abbiamo elaborato qui è un contatto diretto. Eliminiamo l'intermediario uomo, come dite voi americani.

"In quell'ufficio è installato un calcolatore dei più perfetti. È composto di unità allo stato solido, analoghe ai neuroni; ma, nonostante sia in grado di trattare problemi astromilitari, è un apparecchio relativamente piccolo, semplice e robusto. Perché? Perché funziona collegato con il mio cervello, che lo dirige. Un calcolatore convenzionale ha i programmi di funzionamento inseriti nella sua struttura. Il mio elabora schemi sinottici secondo la necessità, allo stesso modo in cui la corteccia inferiore produce capacità sotto la direzione della corteccia cerebrale. Tutti questi schemi sono modificabili con l'esperienza; il sistema continua ininterrottamente a ristrutturarsi. Il calcolatore normale deve elaborare dei sistemi allo scopo di scoprire gli errori e rielaborare i dati per rifare l'operazione. Io, invece, intuisco immediatamente gli sbagli o i guasti, e la momentanea mancanza di funzionamento di questa o quella parte non mi turba più di quanto vengano turbate le vostre cellule cerebrali quando riposate.

"Qui, il personale umano non serve. I miei tecnici mi portano i dati che non occorre ridurre al formato standardizzato. Io mi collego con la macchina e, notatelo bene, non occorre parlare. La risposta viene elaborata con la stessa rapidità dei calcolatori normali, e giunge alla mia coscienza non sotto forma di una serie di cifre, ma in termini pratici, di decisioni sul da farsi. Inoltre la soluzione viene modificata dalla mia consapevolezza umana dei fattori troppo complessi per essere tradotti in forma fisica: uomini ed equipaggiamento, morale, domande a lunga scadenza di logistica e strategia, e sugli scopi finali... Si potrebbe dire che è un calcolatore dotato di buonsenso. È chiaro, capitano?".

Passò parecchio tempo prima che Diaz rispondesse: — Sì, credo di sì.

Rostock si era un poco arrochito. Versò un'altra tazza di tè e ne bevve mezza, accese un'altra sigaretta, e disse con enfasi: — L'importanza militare è evidente. Ma se fosse tutto qui, non ve ne avrei mai parlato. Però si è verificata qualche altra cosa, mentre io m'impratichivo del sistema e riuscivo meglio a comandarlo. Qualcosa di imprevisto. Mi domando se riuscirete a capirlo. — Terminò il tè. — L'esperienza cui mi sono ripetutamente sottoposto mi ha cambiato. Non sono più un essere umano.

L'astronave sussurrava avanzando rapida nelle tenebre.

— Immagino che un collegamento come quello cui vi sottoponete influisca sulle emozioni — azzardò Diaz. — Cosa provate?

— È una sensazione inesprimibile, se non nei termini che io stesso ho elaborato — disse Rostock, alzandosi e mettendosi a camminare sul tappeto multicolore, con le mani unite dietro la schiena e lo sguardo fisso nel vuoto.

— In realtà, l'unico effetto emotivo è un senso d'intensificazione. Per quanto... esistono favole di mortali che diventarono dei. Cosa provavano? Credo che essi badassero a malapena ai palazzi, alla musica, ai banchetti dell'Olimpo. La cosa più importante per loro era di impadronirsi, poco alla volta, delle nuove facoltà. Il nuovo dio acquistava una capacità divina di comprensione. La sua percezione, il distacco, la compiutezza... Non ci sono parole.

Continuava a passeggiare avanti e indietro senza far rumore, accompagnato dal sommesso mormorio dell'energia e dei metalli. — Il mio cervello — continuò a voce bassa e un po' incerta — dirige il calcolatore e i rapporti diventano reciproci. È vero che il calcolatore non possiede facoltà creative, ma partecipa delle mie servendosene con una velocità e una sicurezza che non potete nemmeno immaginare. Dopo tutto, la massima parte del pensiero originale consiste unicamente nel proporre soluzioni sperimentali. Lo scienziato ipotizza, l'artista traccia una riga a carboncino, il poeta scribacchia una frase. Poi le provano per vedere se funzionano. Ma ora, in me, questo aspetto meccanico dell'immaginazione è relegato al livello subconscio a cui appartiene di diritto. Quel che la mia consapevolezza intuisce nella risposta finale, prende vita quasi contemporaneamente alla domanda, ma con un senso di ponderatezza e di realtà quali si possono ottenere solo dopo lunghe meditazioni e rigorose prove.

"È altresì fantastica la quantità di dati che posso elaborare... Oh, senza la metà meccanica di me stesso sono cieco, sordo e muto. Perciò non vi stupirete se in questi mesi ho cercato di restare il più a lungo possibile in collegamento. Anche se non c'erano problemi urgenti da risolvere, me ne stavo lo stesso lì seduto a gustarmelo." Poi, in tono più pratico: "Ecco come ho intuito il vostro tentativo di sabotaggio, capitano. È bastata la vostra posa a tradirvi. Ho indovinato subito e ho ordinato alle guardie di farvi perdere i sensi. Credo di aver scoperto in voi anche il potenziale che mi occorreva. Ma questo richiede un esame più accurato, che è facile perché quando io sono collegato con la macchina non mi potete mentire. Tutto il vostro organismo tradisce la minima mancanza di sincerità".

S'interruppe, fermandosi, con gli occhi fissi alla parete. Diaz fu lì lì per scattare. "Tre salti e potrei arrivare a strappargli la pistola!" Ma no. Rostock era giovane e pronto: non ci sarebbe riuscito. Diaz prese un'altra sigaretta. — Bene — disse. — Cos'avete da propormi?

— In primo luogo — disse Rostock voltandosi, mentre i suoi occhi si raddolcivano — vorrei che vi rendeste conto di chi siete. Di cosa sono gli Spaziali dell'una e dell'altra parte.

— Soldati di professione — borbottò Diaz incerto. Sbuffò il fumo e, dal momento che l'altro stava aspettando, continuò deciso: — Sono gli unici soldati rimasti, poiché non si possono certo tenere in considerazione i reggimenti puramente ornamentali che stanno sulla Terra o i tecnici addetti ai missili. Missili che non saranno mai lanciati. La Terza Guerra Mondiale ha elargito una dose abbastanza alta di radioattività, e la civiltà può dirsi fortunata di essere riuscita a sopravvivere. La prossima volta, sarà tanto se sopravviverà la vita, sulla Terra. Per questo, la guerra si è spostata nello spazio. È diventata una professione e, per forza di cose, sono tornate in vigore le antiche tradizioni di rispetto reciproco e così via... Devo continuare?

— Supponiamo che i vostri distruggano tutte le nostre astronavi — disse Rostock. — Cosa succederebbe?

— Ma... se ne è già discusso, in teoria, da parte di quasi tutti gli scienziati e degli uomini politici, no? Il comando assoluto dello spazio non significherebbe il comando assoluto della Terra. Potremmo distruggere tutto l'emisfero orientale senza venir toccati. Ma non lo faremo mai perché, in punto di morte, l'Unasia lancerebbe le sue bombe al cobalto, e non esisterebbe più un emisfero occidentale in cui poter tornare. Ma una situazione simile non si verificherà mai. Lo spazio è troppo grande. Ci sono troppe astronavi e fortezze sparse ovunque. I combattimenti sono troppo rari e lenti. Nessuna delle due flotte potrà mai annientare l'altra.

— Poiché queste condizioni si protrarranno in eterno, durerà in eterno anche la guerra?

— Be', insomma, sono possibili delle vittorie parziali. Come la conquista di Marte da parte nostra, o la distruzione di tre nostre corazzate in un mese da parte vostra, in diverse occasioni. L'equilibrio del potere oscilla. Piuttosto che lasciarsi distruggere a fondo, la parte perdente chiede di parlamentare. Vi sono negoziati che culminano con vantaggio relativo della fazione più forte. Intanto continua la corsa agli armamenti. Ben presto sorgono nuove divergenze, la tregua cessa, e, al prossimo turno, forse, sarà più fortunata l'altra fazione.

— Ma questa situazione durerà in eterno?

— No! — Diaz s'interruppe, rimase a pensarci per un minuto, e poi arricciò la bocca in un sorriso. — Continuano a parlare di un'organizzazione internazionale veramente valida, ma il guaio è che le due civiltà, almeno ora, sono gli antipodi. Non possono coesistere.

— Anch'io credevo la stessa cosa — rispose Rostock. — Ma da un po' non ne sono più sicuro. Si potrebbe escogitare un federalismo mondiale che permettesse alle due civiltà di conservare le loro caratteristiche. In realtà, sono state già avanzate parecchie proposte in questo senso, come sapete, ma non si è mai andati più in là delle discussioni. Né mai ci si riuscirà. Perché, vedete, quel che mantiene in piedi una guerra o la possibilità di un conflitto non sono le differenze, ma i punti di contatto di due civiltà.

— Ehi, dite! — sbottò Diaz. — Mi offendo.

— Scusate — continuò Rostock — non voglio trinciare giudizi morali. Se non altro per amor di discussione, posso concedervi la superiorità morale, facendovi notare, solo fra parentesi, che sulla Terra vivono miliardi di persone che non solo non capiscono cosa intendete voi per libertà, ma non sarebbero affatto contente se gliela concedeste. Le affinità di cui parlavo sono tecniche. Tutte e due le nostre civiltà si basano sulle macchine, con tutta l'enorme organizzazione e il dinamismo che esse implicano.

— E allora?

— Allora la guerra è una necessità... Aspettate! Non parlo di "mercanti di morte" o di "dittatori che hanno bisogno di un nemico esterno", o di tutti gli altri slogan della propaganda attuale. Intendo dire che il conflitto è insito nelle nostre civiltà. Deve esserci uno sbocco ai sentimenti distruttivi generati nella massa del popolo dal genere di vita che conduce. Un genere di vita a cui l'evoluzione non li aveva mai destinati.

"Avete mai sentito parlare di L.F. Richardson? No? Era un inglese del secolo scorso, un quacchero, che odiava la guerra; ma poiché era uno scienziato, si rese conto che il fenomeno andava compreso clinicamente prima di venir eliminato. Egli eseguì alcune brillanti analisi teoretiche e statistiche che dimostravano, per esempio, come l'aliquota delle liti mortali fosse pressoché costante attraverso le decadi. Potevano verificarsi conflitti di minore o di maggiore entità, ma il risultato è lo stesso. Perché gli Stati Uniti e l'Impero Cinese furono tanto pacifici nel XIX secolo? La risposta è che non lo furono affatto. Ebbero la Guerra Civile e la Ribellione di Taiping, che provocarono tutte le devastazioni possibili. Non occorre che mi dilunghi con gli esempi. Ne potremo discutere particolareggiatamente in seguito. Io ho proseguito il lavoro di Richardson e ho studiato molto più a fondo il problema. Per ora vi dico solo che le società civili devono avere una certa quota di sacrifici."

Diaz tacque a lungo prima di rispondere: — Be', qualche volta anch'io ho pensato le stesse cose. Immagino che, secondo voi, le vittime siamo noi Spaziali, oggi.

— Esattamente. La guerra combattuta quassù non minaccia il pianeta. Ma il nostro sacrificio mantiene in vita la Terra. — Rostock sospirò. — Le parole magiche producono un effetto sulle emozioni della gente che le pronuncia. Se uno stregone di una tribù primitiva dice a un uragano di allontanarsi, l'uragano non lo sente, ma la tribù sì e ci crede. Il paragone antico che fa al caso nostro, tuttavia, è il re sacrificale delle primitive società agricole. Un dio sotto spoglie mortali, che veniva regolarmente trucidato affinché i campi dessero un buon raccolto. Questa non era solo superstizione, dovete capirlo. Aveva effetto... sulla gente. Il rito era essenziale per il funzionamento della loro forma di vita, per la loro salute e quindi per la loro sopravvivenza.

"Oggi, l'era della macchina ha prodotto i suoi re sacrificali. I prescelti siamo noi. Il meglio che la razza può offrire. Nessuno ci nega niente. Possiamo avete tutto quel che vogliamo, piaceri, lusso, donne, adulazione... ma non i semplici piaceri della vita, una casa e una famiglia, perché dobbiamo morire affinché gli altri possano vivere."

Ancora un lungo silenzio, poi: — Siete davvero convinto che la guerra continua per questo? — domandò adagio Diaz.

Rostock annuì.

— Ma nessuno... cioè, la gente non...

— Non ci ragionano sopra, naturalmente. La tradizione si sviluppa alla cieca. Gli antichi contadini non elaboravano ragioni logiche circa i motivi per cui il re doveva morire. Lui sapeva che così doveva essere, e lasciava agli antropologi moderni la spiegazione del sillogismo. Io non mi sono accorto di quanto andava sviluppandosi finché non ebbi l'occasione di... di diventare più percettivo di quanto non fossi mai stato — concluse con umiltà Rostock.

Diaz non resisteva più a stare seduto. Balzando in piedi disse brusco: — Presumendo che abbiate ragione, dove volete arrivare? Che cosa si può fare?

— Molto — rispose Rostock, e un'espressione di calma gli si distese sul volto come una maschera. — Non sono mistico nemmeno su questo punto. Il re sacrificale è ricomparso come ultimo prodotto di una lunga catena di cause ed effetti. Nelle leggi naturali non è insita alcuna ragione perché debba essere così. Richardson aveva ragione, esponendo la speranza che, quando si capisce la guerra come fenomeno, la si può eliminare. Questo, naturalmente, importa una completa ristrutturazione della civiltà terrestre, che andrà fatta poco per volta, con molta abilità. Ricordate — tese una mano ad afferrare la spalla di Diaz con una morsa dura, dolorosa — nella storia, oggi, c'è un elemento nuovo. Noi. I re. Noi siamo diversi da coloro che vivono sotto il cielo della Terra. Sotto alcuni punti di vista siamo superiori, sotto altri inferiori; ma comunque, siamo sempre diversi. Voi e io siamo molto più simili fra di noi di quanto non lo siamo nei confronti dei nostri compatrioti. Non è vero, forse?

"Il tempo e la solitudine mi hanno concesso di servirmi dei miei nuovi poteri per pensare a questo. Non solo pensare, perché si tratta ben più che di un freddo ragionamento. Ho cercato di sentire. Cioè di amare, come dice il Buddismo. Io sono convinto che un nucleo di Spaziali come noi, raccolti dopo una cernita lenta e segreta, desiderosi del bene di tutti e contrari a danneggiare chicchessia, dotati di facoltà e introspezioni che nessuno sulla Terra può immaginare, potrebbero concludere davvero qualcosa. Se non noi, i nostri figli. Gli uomini non dovrebbero uccidersi l'un con l'altro, quando le stelle stanno aspettando."

Tacque, si voltò e fissò il ponte. — Certo — aggiunse poi — nella mia particolare situazione, prima debbo distruggere una certa quantità di vostri fratelli.

Avevano dato a Diaz un pacchetto intero di sigarette, enorme tesoro, lassù, prima di rinchiuderlo nel cubicolo che gli avevano destinato, per tutta la durata del secondo scontro. Giaceva legato alla cuccetta, con le orecchie piene del fragore dei colpi e del rombo dei motori attraverso le paratie vibranti, con gli occhi fissi nelle tenebre, fumando una sigaretta dopo l'altra finché non ebbe la bocca amara. Talvolta la "Ho" accelerava, ma per lo più galleggiava in caduta libera. Una volta, tutto lo scafo fu scosso da una violenta vibrazione: aveva schivato di poco un proiettile che gli era esploso vicino. Ma i raggi gamma, ignorando gli schermi magnetici, s'infiltravano ugualmente negli organismi, rosicchiando agli uomini qualche altro mese di vita. Ma importava poco, perché raramente gli Spaziali vivevano così a lungo da preoccuparsi delle malattie degenerative. Diaz non ci pensava nemmeno.

"Rostock non mente. Perché dovrebbe farlo? Che cosa avrebbe da guadagnarci? Può darsi che sia pazzo. Però non si comporta come tale. Vuole che studi le sue equazioni e le sue statistiche, perché mi convinca che ha ragione. E deve essere proprio sicuro che mi persuaderò, per avermi parlato a quel modo. Quanti ce ne sono come lui? Pochissimi, ne sono sicuro. La simbiosi uomo-macchina è senz'altro una novità, altrimenti anche noi avremmo subodorato qualcosa. Deve essere la prima volta che provano questo sistema sul campo di battaglia. Chissà se anche gli altri sono giunti alle stesse conclusioni di Rostock? No, dice lui stesso che non è probabile. Lui è un'eccezione e per fortuna non è condizionato come gli altri... Per fortuna? Come posso asserirlo? Io sono solo un uomo, e non so cosa significhi avere un Quoziente d'Intelligenza di 1000, o qualunque sia la cifra. Non è detto che gli scopi di un dio siano gli stessi che sceglierebbe un uomo."

La definitiva cessazione della guerra? Be', altre istituzioni erano scomparse, almeno nei paesi occidentali: la tortura giudiziaria, la schiavitù, i sacrifici umani... No, un momento: secondo Rostock i sacrifici umani erano ancora in auge.

— Ma la quota delle nostre perdite è abbastanza alta da confermare le vostre equazioni? — aveva obiettato Diaz. — Le forze spaziali non sono numerose quanto gli antichi eserciti.

— Bisogna tener conto di altri elementi, oltre alla morte — aveva risposto Rostock. — Uno di questi fattori è rappresentato delle spese enormi. Il pagamento delle tasse è una forma simbolica di automutilazione. Inoltre, tende a convogliare il risentimento e lo spirito aggressivo della gente contro il governo, alleggerendo così la pressione dei rapporti internazionali.

"Ma sopra ogni altra cosa bisogna tener presente l'intensità emotiva. Uno Spaziale non soltanto muore, ma muore in modo orribile, e il trapasso è il momento culminante di un periodo vissuto in condizioni spaventose. I suoi commilitoni che svolgono le loro mansioni a terra soffrono attraverso di esso, e i suoi parenti, amici, donne ne sono affetti allo stesso modo. Quando Adone muore - o Osiride, Tammuz, Baldur, Cristo, Tlatoc o qualunque altro dei mille dei - il popolo deve in certo modo condividere la sua agonia. Fa parte del sacrificio."

Diaz non aveva mai considerato la questione da questo punto di vista. Come la maggior parte degli Spaziali, aveva riservato ai civili un malcelato disprezzo. Però... ricordava che, di tanto in tanto, gli era capitato di esser contento che sua madre fosse morta prima che lui si arruolasse. E perché sua sorella si era data al bere? Poi cera stata Lois, la ragazza dai capelli di fuoco e dagli occhi viola, che, quando lui era partito, aveva pianto come se non dovesse mai smettere. Le aveva promesso di cercarla, al suo ritorno, ma sapeva che era una promessa bugiarda.

E questo non cancellava certo il ricordo degli uomini di cui aveva visto scoppiare il sangue e il respiro attraverso gli elmetti esplosi, che tremavano, e vomitavano, e defecavano negli ultimi stadi delle malattie dovute ai raggi; che avevano fissato senza capire, sul momento, l'improvvisa chiazza rossa che un attimo prima erano stati un braccio o una gamba, che erano impazziti e avevano dovuto essere uccisi coi gas perché la psiconeurosi è contagiosa nelle orbite lunghe sei mesi al largo di Saturno; che... Sì, Carl era stato fortunato.

Si poteva parlare a sazietà dello spirito di corpo, dell'onore, delle tradizioni, della cavalleria. Erano tutte chiacchiere sentimentali.

No, non era giusto. Gli Spaziali avevano salvato la gente, avevano salvato la vita e la libertà. Non poteva esserci meta più sublime. Ma anche la cavalleria, un tempo, era stata una cosa nobile. Poi, sopravvivendo alla sua epoca, era diventata uno scherzo, una farsa addirittura. Le virtù guerriere non erano fini a se stesse. Se il guerriero diventava un personaggio sorpassato...

Ma sarebbe mai stato possibile? Cosa poteva sperare di ottenere un uomo, per quanto integrato da una macchina? Quanto poteva perfino sperare di capire?

La rivelazione folgorò Diaz, accecandolo come un improvviso bagliore di esplosione.

Quando riprese il dominio di sé, comprese cosa volesse dire essere religiosi.

— Per Dio — disse all'universo. — Tenteremo!

 

La battaglia sarebbe ricominciata fra poco. Da un momento all'altro, infatti, un esploratore di avanguardia della flotta americana avrebbe potuto lanciare un missile. Ma quando Diaz disse alla sentinella che voleva parlare col generale Rostock, lo accontentarono subito.

La porta si chiuse dietro di lui. Il salottino era vuoto e silenzioso, se non fosse stato per il ronzio sommesso della macchina. La "Ho" procedeva in caduta libera, ma poiché poteva esser necessario accelerare da un momento all'altro, non v'era rotazione. Diaz galleggiava privo di peso come la nebbia. E il Monet gli gettava negli occhi tutto il sole e il verde dei boschi terrestri.

— Rostock — chiamò con voce incerta.

— Avanti — disse una voce appena percettibile. Diaz scalciò nel vuoto e si diresse fluttuando verso l'ufficio.

Si fermò afferrandosi a uno stipite. Davanti a lui si stendeva un locale semicircolare la cui parete era completamente occupata da comandi e misuratori. Luci ammiccavano, indici oscillavano sui quadranti, bottoni e interruttori e pulsanti si rincorrevano sui pannelli neri. Ma nulla di tutto questo aveva importanza. Quel che contava era solo l'uomo seduto alla scrivania, e dalla cui testa uscivano cavi che si collegavano alla parete.

Pareva che Rostock avesse perso completamente il peso. O era un'illusione? La pelle, di un pallore mortale, era tirata sugli zigomi alti. Le narici fremevano e le labbra incolori si tendevano sui denti. Diaz lo guardò negli occhi, ma distolse subito lo sguardo. Non riusciva a sopportarne la vista, non poteva nemmeno pensare a quegli occhi. Tremando, respirò a fondo, e attese.

— Avete fatto in fretta a decidere — sussurrò Rostock. — Non vi aspettavo prima della fine dello scontro.

— E io non credevo che mi avreste ricevuto, prima di allora.

— Ma questo è più importante. — Diaz ebbe l'impressione che lo avessero punzecchiato con dei coltelli. Non poteva credere che fosse frutto della sua immaginazione. Fissò disperato gli strumenti infissi nei pannelli, e la loro mancanza di umanità servì in certo qual modo a confortarlo.

"Devono averli messi solo per beneficio dei tecnici di manutenzione" pensò una remota parte della sua mente. "Il cervello non ha bisogno di loro."

— Siete convinto? — disse Rostock francamente sorpreso.

— Sì — rispose Diaz.

— Non me l'ero aspettato. Avevo solo sperato che consentiste, con riluttanza, a studiare il mio lavoro. Siete maturo per una nuova fede — aggiunse poi guardandolo da una distanza remota. — Non avrei scelto un tipo come voi, ma la mente può servirsi solo dei dati che le vengono offerti, e io, inoltre, avevo ben poche occasioni di conoscere degli Americani. Specie dopo la mia trasformazione. La vostra psiche è diversa dalla nostra.

— Non ho bisogno di capire le vostre scoperte — dichiarò Diaz. — Per ora posso solo credere. Non vi basta?

Lentamente, la bocca di Rostock si atteggiò a un sorriso pieno di calore umano. — Esatto. Ma una volta ottenuta la fede, la comprensione intellettuale non può tardare.

— Io... non dovrei farvi perdere tempo, specie ora — balbettò Diaz. — Come devo incominciare? Devo prendere qualche libro?

— No — ora Rostock parlava con fermezza, come un padrone al servitore. — Mi occorre il vostro aiuto qui. Legatevi a quella sedia. Per prima cosa dobbiamo sopravvivere alla battaglia che sta per scatenarsi. Vi rendete conto che morranno molti dei vostri. So che questo vi farà molto soffrire. Ma, in seguito, impiegheremo le nostre esistenze a ripagare la nostra gente... la mia e la vostra. Oggi però devo chiedervi qualche informazione sulla vostra flotta. Qualsiasi informazione può essere utile, in ispecie i particolari delle costruzioni e degli armamenti che il nostro servizio segreto non è ancora riuscito a scoprire.

Doña mia. Diaz lasciò lo stipite e si lasciò andare, coprendosi la faccia con le mani. "Aiutami".

— Non è tradimento — disse il superuomo. — Ma l'estrema prova di fedeltà che potete dare.

Diaz si costrinse a guardare di nuovo la stanza. Dando una spinta contro la paratia, si portò al sedile vicino alla scrivania.

— Non potete mentirmi — disse Rostock. — Non negate che vi procuro un dolore immenso. — Diaz serrò i pugni. — Quando vi guardo, condivido le vostre sensazioni.

Diaz si afferrò alle cinghie della sedia. E fu allora che si sentì squassare da un'esplosione interna.

— No!

Rostock urlò.

— No — singhiozzò Diaz. — Non voglio... — Ma le onde si rovesciavano una dopo l'altra. Rostock, trattenuto dalle cinghie, gridava dibattendosi. E Diaz rivide la scena, tornata alla sua memoria con la precisione di un colpo che raggiunge il bersaglio...

— Abbiamo pensato di mettere un'altra corda al nostro arco — disse l'ufficiale psicologo. La luce del sole che illuminava la luna, appena attenuata dalla cupola, traeva barbagli dai becchi e dalle ali delle sue aquile di bronzo. — Sapete già che la vostra ulna destra è stata sostituita da un segmento di metallo in cui è inserita una cartuccia atomica comandata dagli impulsi nervosi. Ma può darsi, signori, che questo non basti.

I giovani seduti di fronte a lui, si agitarono inquieti. — In questo paese — proseguì l'ufficiale — noi non crediamo che gli uomini debbano essere trasformati in burattini. Perciò il controllo delle bombe che avete inserite dipenderà dalla vostra volontà, e non è postipnotico, né un riflesso di Pavlov né alcun altro insultante trucco del genere. Tuttavia, quelli di voi che desiderino subire uno speciale trattamento extra, saranno accontentati e i particolari di questo avvenimento saranno cancellati dalla vostra coscienza, e sepolti nel vostro subconscio.

"Noi abbiamo ragionato a questo modo: se e quando gli Unasiatici scopriranno la vostra arma segreta, toglieranno la cartuccia con un intervento chirurgico, ma lasceranno l'osso di metallo, che, così speriamo, non esamineranno accuratamente al microscopio. Ignoreranno quindi che esso contiene un oscillatore integrato nella struttura dei cristalli. Non lo saprete nemmeno voi, perché ciò che ignorate non potrà esser svelato sotto l'effetto dell'anestesia.

"Potrà capitare l'occasione, se sarete fatti prigionieri, e vi toglieranno la cartuccia, di arrecare danni con quest'arma di riserva. Potreste trovarvi vicini a un congegno elettronico d'importanza capitale, per esempio il pilota automatico di un'astronave. A breve distanza, l'oscillatore eseguirà un ottimo lavoro mettendolo fuori uso. E questo, come minimo, sconcerterà il nemico, evi darà forse l'opportunità di fuggire.

"Il comando postipnotico sarà tale per cui voi vi ricorderete dell'oscillatore quando si verificheranno circostanze tali da richiederne l'uso. Non prima. Certo, la mente umana è una cosa maledettamente strana, di cui è difficile prevedere il comportamento. Per potervi offrire l'occasione di usare l'oscillatore, il vostro subconscio vi costringerà forse a comportarvi in modo migliore. Può perfino darsi che arriviate al punto da meditare un tradimento, se questo vi sembrerà l'unico modo di aver accesso a ciò che volete distruggere. Perciò, vi esorto a non crucciarvene in seguito, signori. I vostri superiori saranno al corrente di tutto.

"Non nego che l'esperienza potrà essere dolorosa. E la postipnosi è, a dir poco, umiliante, per un uomo libero. Perciò, questa parte del programma è esclusivamente volontaria. C'è qualcuno che vuol provare?"

La porta si spalancò, e si precipitarono dentro le sentinelle. Diaz era già dietro la scrivania, vicino a Rostock. Afferrò la pistola del generale, e sparò contro i soldati. Il rinculo lo mandò a sbattere contro il quadro dei comandi. Si riprese, tornò a sparare, e, col gomito sinistro, frantumò lo strumento più vicino.

Rostock artigliava i cavi che gli uscivano dal cranio. Per un attimo, Diaz pensò a quale terribile effetto si doveva provare ad avere nel cervello un oscillatore non sintonizzato, e per di più amplificato dal motore elettronico che era parte integrante del corpo del generale. Puntò la pistola contro l'uomo che continuava a urlare, e sparò.

E ora, fuori! Scalciando a più non posso, oltrepassò come una freccia le sentinelle che ruotavano a mezz'aria di una galassia scarlatta di gocce di sangue. Fuori, nel corridoio, regnava una gran confusione. Qualcuno fece per afferrarlo, ma lui evitò la prese tuffandosi in un passaggio laterale. Sapeva che lì vicino vi era il compartimento degli scooter. Eccolo! E intorno non un'anima!

Non ebbe il tempo di infilarsi una tuta, posto che quelle degli Unasiatici gli andassero bene, ma sollevò la cupola sopra lo scooter. Questa, oltre alla riserva d'ossigeno e all'unità termica, gli sarebbe bastata. Decise di non allontanarsi una volta fuori. Non si sarebbe mosso prima che la fortuna gli fornisse l'occasione di pilotare lo scooter verso il portello di un'astronave americana.

Sì, se la fortuna lo avesse assistito, ce l'avrebbe fatta. Una volta distrutto il calcolatore principale, il nemico era destinato all'annientamento completo, e man mano che l'eccidio progrediva, gli americani si sarebbero sempre più avvicinati. E uno di loro avrebbe captato il richiamo della radio dello scooter.

Diaz si sistemò a bordo, manovrò i comandi, si assestò sul sellino, chiuse la cupola, e attese di venir espulso dal portello. Fece appena in tempo. Tre soldati, infatti, erano comparsi nel corridoio, e Diaz diede tutto gas e si allontanò dalla "Ho". Lo scafo nero si confuse ben presto fra le miriadi di stelle.

Incominciò la battaglia. La prima astronave unasiatica che andò distrutta esplose a meno di cinquanta miglia da lui. Ma per fortuna Diaz stava guardando dalla parte opposta, quando il missile esplose.

 

L'uomo che aveva fatto amicizia con l'elettricità

The Man Who Made Friends with Electricity

di Fritz Leiber

da The Magazine of Fantasy and Science Fiction, marzo

 

Eccoci di nuovo in compagnia di Fritz Leiber, il Gran Maestro degli Scrittori di Fantascienza d'America. Qui l'autore ci propone un insolito racconto, che potrebbe essere stato scritto dal compianto Philip K. Dick.

Forse "L'uomo che aveva fatto amicizia con l'elettricità" è fantascienza, forse è fantasy, o forse non è né l'uno né l'altro. Quel che è certo è che lascia nel lettore un ricordo indelebile.

 

Quando il signor Scott fece vedere Casa Peak al signor Leverett, sperò che non notasse il palo dell'alta tensione accanto alla finestra della camera da letto, perché la sua presenza aveva già scoraggiato due potenziali affittuari. Erano così tante le persone anziane che avevano una stupida fobia dell'elettricità! In ogni caso, non c'era modo di risolvere il problema di quel palo se non cercando di focalizzare l'attenzione dei visitatori su qualcos'altro. La linea elettrica seguiva la cresta delle colline e quell'impianto serviva a soddisfare oltre la metà del fabbisogno energetico di Pacific Knolls.

Ma le preghiere del signor Scott e tutti i suoi tentativi di distrarre il signor Leverett furono vani: i suoi occhi attenti si posarono su quell'"inconveniente" nel momento stesso in cui misero piede nel patio. L'anziano signore, giunto in California dal New England, studiò la colonna di legno, bassa e grossa, gli isolatori di vetro a righe, larghi cinquanta centimetri, e la scatola nera del trasformatore che serviva a diminuire la tensione dell'energia elettrica destinata a quella e a poche altre abitazioni lungo il fianco della collina. Poi seguì con lo sguardo i grossi fili che oscillavano ritmicamente a gruppi di quattro sopra le nude alture grigio-verdi. Quando captò lo sfrigolio degli elettroni, che dai fili si diffondeva nell'aria, inclinò la testa e tese l'orecchio. Era uno sfrigolio sommesso, ma costante, che di tanto in tanto si ingrossava in uno scoppiettio, oppure si confondeva in un ronzio.

— Ma lo sente! — esclamò. Per la prima volta, da quando avevano iniziato la visita della casa, la voce fredda dell'anziano uomo si colorò di una nota di entusiasmo. — Cinquantamila volt! Questa sì che è potenza!

— Dev'essere colpa delle particolari condizioni atmosferiche di oggi. Di solito non si sente niente — replicò il signor Scott con disinvoltura, travisando un po' la verità.

— Non mi dica — commentò il signor Leverett, con tono nuovamente distaccato, ma il signor Scott preferì distogliere la sua attenzione da quell'elemento negativo. — Guardi che bel prato — si animò, accompagnando quell'invito con un sorriso smagliante. — Quando il Campo da Golf di Pacific Knolls fu lottizzato, il proprietario di questa casa acquistò tutto il diciottesimo green e...

Per tutto il resto della visita, il signor Scott sfoderò le sue migliori doti di agente immobiliare diplomato, cosa che non capita tutti i giorni in California meridionale, ma il signor Leverett dava l'impressione di accordargli un'attenzione poco più che vaga. Cosicché dentro di sé, l'agente prevedeva già un'altra sconfitta per colpa di quel maledetto palo della luce.

Mentre ripetevano a ritroso il giro della casa, il signor Leverett insistette per trattenersi alcuni istanti sul patio. — Si sente ancora — osservò con aria stranamente soddisfatta, riferendosi al ronzio. — Lo sa, signor Scott, per me questo è un rumore riposante. Come il fischio del vento, il gorgoglio di un ruscello o lo sciabordio delle onde. Odio il frastuono delle macchine, questa è l'altra ragione per cui ho lasciato il New England, ma questo, per me, è come un suono della natura. Trovo che abbia un profondo effetto calmante. Lei però mi diceva che si sente di rado?

Il signor Scott era un uomo flessibile, e, come venditore, questa era senz'altro una delle sue più grandi doti.

— Signor Leverett — ammise semplicemente — non c'è stata volta in cui io mi sia trovato in questo patio che non abbia sentito questo rumore. A volte è più forte, a volte è più debole, ma c'è sempre. Però, io tendo a darvi poca importanza, perché alla maggior parte delle persone non intéressa.

— Non è colpa sua — replicò l'altro. — La maggior parte della gente è stupida, per non dir di peggio. Signor Scott, che lei sappia, in questa zona abita qualche Comunista?

— No di certo! — rispose l'agente immobiliare senza esitazione. — Non c'è un solo Comunista in tutta Pacific Knolls. Sarei pronto a mettere una mano sul fuoco.

— Le credo — disse il signor Leverett. — La costa est pullula di Comunisti. Da queste parti sembrano più rari. Signor Scott, lei ha concluso il suo affare. Affitterò Casa Peak per un anno, con i mobili che ci sono e all'ultimo prezzo che mi ha proposto.

— Benissimo! Qua la mano! — esclamò l'agente, porgendogli la propria. — Signor Leverett, lei è proprio il genere di persona che ogni abitante di Pacific Knolls desidererebbe come vicino di casa.

Il signor Leverett si dondolò sui tacchi e. mentre ammirava i fili sfrigolanti, sorrise con una soddisfazione che tradiva la pregustazione del momento in cui avrebbe preso possesso della casa.

— Che cosa affascinante, l'elettricità — osservò. — Non c'è limite alle cose che può fare e che permette di fare. Per esempio, se uno volesse andarsene in un lampo, ma con eleganza, non dovrebbe far altro che innaffiare abbondantemente il prato, comperare dieci metri di cavo di rame, del tipo spesso, stringerlo fra le mani nude a un capo e colpire con l'altra estremità i fili dell'alta tensione. Patapum! Perfetto, come a Sing Sing e molto più gratificante per i bisogni interiori di un uomo

Per un attimo, il signor Scott si sentì mancare il cuore e l'istante successivo fu colto dalla tentazione di non tenere fede all'accordo verbale che aveva appena concluso. Ripensò alla signora rossa di capelli che aveva preso in affitto da lui un appartamento, soltanto per avere un posticino tranquillo in cui ingerire un'overdose di barbiturici. Poi si ricordò che la California meridionale è, secondo un vecchio e, saggio detto, la patria (reale o auspicata) della pesca, delle arachidi e delle prugne e, se era vero che aveva avuto raramente a che fare con stelline, reali o presunte, aveva spesso avuto come clienti tipi strambi e vecchi brontoloni. Perciò, sommando fra di loro i fantasiosi desideri di morte, la passione per l'elettricità, un viscerale anticomunismo e la fobia delle macchine, la personalità del signor Leverett risultava perfettamente in linea con quella degli altri frequentatori della regione.

A quel punto, acutamente, il signor Leverett osservò: — In questo momento la preoccupa l'idea che io sia un potenziale suicida. Mi sbaglio forse? Stia tranquillo. Io sono solo un tipo a cui piace pensare. Ed esprimere i propri pensieri ad alta voce, anche se a volte possono risultare bizzarri.

Il signor Scott sentì svanire lentamente i suoi timori e, mentre scortava il suo cliente verso l'ufficio per la firma del contratto, riacquistò l'entusiasmo e la grinta che facevano di lui quel bravo agente immobiliare che era.

Tre giorni dopo, fece una capatina a Casa Peak per vedere come se la passasse il nuovo inquilino e lo trovò sul patio, comodamente disteso su una poltrona a dondolo vicino al palo dell'alta tensione.

— Prenda una sedia e si accomodi — gli disse indicando uno dei moderni pezzi tubolari dell'arredamento. — Signor Scott, le dirò che ho trovato in questa casa proprio il posto riposante che cercavo. Ascolto l'elettricità e lascio vagare i miei pensieri. Ogni tanto sento alcune voci, i fili che parlano, come si suol dire. Lo sa che ci sono persone che sostengono di udire delle voci nel vento?

— Sì, l'ho sentito dire — ammise l'agente, vagamente imbarazzato. Poi, ricordando che il signor Leverett aveva già versato l'affitto per il primo quadrimestre, trovò il coraggio di esprimere la sua opinione. — Però quello del vento è un suono molto vario. Questo ronzio mi sembra troppo monotono per potervi sentire delle voci.

— Bah — commentò l'anziano uomo, con un sorrisetto dal quale era impossibile capire fino a che punto scherzasse o parlasse seriamente. — Le api sono insetti estremamente intelligenti: gli entomologi sostengono che abbiano sviluppato un loro linguaggio, eppure non fanno altro che ronzare. Io sento delle voci nell'elettricità.

Dopodiché si dondolò per qualche istante e il signor Scott tacque.

— Eh sì, io sento delle voci nell'elettricità — riprese il vecchietto con aria sognante. — L'elettricità mi parla dei suoi viaggi nei quarantotto stati dell'Unione... e anche nel quarantanovesimo, attraverso gli impianti canadesi. Oggi l'elettricità arriva dovunque, nelle case, e in ogni stanza della casa, negli edifici governativi e nelle stazioni militari. E quello che non apprende in questo modo, lo capta attraverso le dispersioni elettriche delle linee telefoniche e delle onde radio. La corrente che circola nelle nostre case è, per così dire, la sorella minore di quella dell'alta tensione e, si sa, i bambini piccoli hanno le orecchie lunghe. Eh sì, l'elettricità sa tutto di noi, perfino i nostri segreti più intimi. Soltanto che non si sogna di dire alle persone quello che sa, perché tutti pensano a lei come a un fredda forza meccanica. E invece no: sotto sotto è calda, viva, sensibile e affettuosa, come qualsiasi altro essere vivente.

Catturato da quell'atmosfera poetica, il signor Scott pensò a quale bello spunto pubblicitario avrebbero potuto fornire quelle immagini: immagini fantasiose, un po' rustiche, ma poetiche.

— Ma l'elettricità è anche un po' cattivella — proseguì il signor Leverett. — Bisogna domarla. Conoscerla, parlarle con cortesia, senza mostrare paura, e fare amicizia con lei. Bene, signor Scott — disse poi, con tono improvvisamente brusco, alzandosi in piedi. Immagino che lei sia venuto qui per controllare se mi prendo cura di Casa Peak. La prego di seguirmi, questa volta sarò io a farle da guida.

E, nonostante l'altro protestasse che non era affatto quello il motivo della sua visita, il signor Leverett proseguì nel suo intento.

A un certo punto del giro all'interno dell'abitazione, si fermò per spiegare: — Ho messo via la coperta elettrica e il tostapane perché non mi sembrava giusto usare l'elettricità per lavori così umili.

Per quanto il signor Scott poté giudicare, il nuovo inquilino non aveva aggiunto nulla all'arredamento della casa, a parte la sedia a dondolo e una vasta collezione di punte di frecce indiane.

Una volta ritornato à casa, doveva aver fatto qualche accenno a queste ultime, perché una settimana più tardi, suo figlio, di nove anni, gli disse: — Ehi papà, sai quel vecchio tizio a cui hai rifilato Casa Peak?

— Si dice affittato, Bobby.

— Be' sono andato a vedere la sua raccolta di punte di frecce. Ma papà, tu lo sapevi che era un incantatore di serpenti?

"Oh Buon Dio" pensò il signor Scott "lo sapevo che doveva esserci qualcosa che non andava in quel tipo. Forse gli piace la collina perché quando fa caldo attira i serpenti".

— Però non ha incantato un vero e proprio serpente, ma una vecchia prolunga. Prima mi ha fatto vedere le punte delle frecce, poi si è seduto per terra con le gambe incrociate e ha incominciato a muovere le mani avanti e indietro. Dopo pochi secondi la prolunga ha iniziato a strisciare sul pavimento come una biscia. Poi, all'improvviso si è drizzata, come un cobra nel cesto. È stato spaventoso!

— Conosco il trucco — disse il signor Scott. — C'è un filo sottile legato all'estremità della prolunga che la tira su.

— Oh, no, se ci fosse stato l'avrei visto.

— Non se era trasparente — spiegò il padre. Poi gli sovvenne un pensiero. — Dimmi, Bobby, l'altra spina della prolunga era infilata nella presa?

— Oh sì, papà! Mi ha detto che il gioco non gli sarebbe mai riuscito se nella prolunga non passava la corrente. Perché vedi, lui in realtà è un incantatore di elettricità. Io ho detto incantatore di serpenti perché era più eccitante. Poi siamo usciti e il signor Leverett ha attirato l'elettricità giù dai fili dell'alta tensione e se l'è fatta scivolare lungo tutto il corpo. L'ho vista passare da parte a parte.

— Come sarebbe a dire? — domandò il signor Scott, sforzandosi di mantenere un tono di voce neutro. Immaginava il signor Leverett, impassibile come sempre, con il corpo avvolto da serpenti azzurri con occhi di diamante e denti scintillanti.

— Si capiva dal modo in cui gli si rizzavano i capelli in testa. Prima da una parte e poi dall'altra. A un certo punto ha detto: "Elettricità scendi sul mio petto" e il fazzoletto di seta nel taschino della giacca si è drizzato. Papà, è stato bello quasi come la visita al Museo della Scienza e della Tecnica!

L'indomani, il signor Scott fece un salto a Casa Peak, ma non ebbe modo di rivolgere al signor Leverett le domande che si era preparato, perché questi lo salutò dicendo: — Immagino che suo figlio le abbia raccontato del piccolo spettacolo di magia che ho improvvisato per lui ieri. A me piacciono molto i bambini, signor Scott. Cioè i bravi bambini repubblicani come il suo.

— Be' sì, in effetti, me ne ha parlato — ammise il signor Scott disarmato e un po' confuso dalla franchezza dell'altro.

— Gli ho solo mostrato i trucchi più semplici, naturalmente. Cose da bambini.

— Naturalmente — gli fece eco il signor Scott. — Immagino che abbia usato un filo molto sottile per far danzare quella prolunga.

— Ne deduco che lei ritenga di conoscere la risposta a ogni cosa, signor Scott — replicò l'altro, con uno scintillio negli occhi. — Ma venga a sedersi un po' con me sul patio.

Il ronzio era particolarmente forte quel giorno, ma dopo un po' l'agente immobiliare fu costretto a riconoscere che si trattava davvero di un suono riposante. E anche molto più vario di quanto avesse mai notato: scoppiettii di crescente intensità, sfrigolii sempre più fiochi, sibili, brusii, schiocchi, sospiri: se solo fosse rimasto in ascolto abbastanza a lungo, probabilmente avrebbe incominciato anche lui a sentire le voci.

Dondolandosi silenziosamente sulla sua poltrona, il signor Leverett disse: — L'elettricità mi parla del suo lavoro e dei suoi svaghi: i balli, le canzoni, i grandi concerti, i viaggi nello spazio, le corse campestri in cui, al suo confronto, i razzi sembrano lumache. E mi parla anche delle sue preoccupazioni. Si ricorda quel black-out che si verificò a New York? L'elettricità me ne ha spiegato il motivo. Alcuni elettroni impazzirono, per il sovraccarico di lavoro, immagino, e si bloccarono, così. Ci volle un po' di tempo per inviarne altri, da fuori città, per guarire i primi e metterli di nuovo in moto lungo la grande rete di rame. L'elettricità mi ha detto di temere che, prima o poi, possa accadere la stessa cosa anche a Chicago e a San Francisco. Troppo lavoro.

"All'elettricità non dispiace lavorare per noi. Perché ha un cuore generoso e ama il suo lavoro. Ma sarebbe più contenta se la rispettassimo un po' e se tenessimo maggiormente in considerazione i suoi problemi.

"Deve vedersela con i suoi fratelli più primitivi, capisce, l'elettricità selvaggia che infuria durante i temporali, che abita le cime delle montagne e che scende a valle per uccidere. Non è civilizzata, come l'elettricità che corre sui fili, ma anche lei un giorno lo sarà.

"Perché l'elettricità civilizzata è una grande maestra. Ci insegna a vivere puliti, uniti e animati da amore fraterno. Se in qualche luogo si verifica un calo di tensione, l'elettricità accorre da ogni parte per tappare la falla. Serve la Georgia, come il Vermont, Los Angeles come Boston. E poi è profondamente patriottica: ha rivelato i suoi segreti solo ad americani autentici, come Edison e Franklin. Lo sa che uccise uno svedese che tentò di domarla? Sì, l'elettricità è la più grande forza del bene di tutti gli Stati Uniti d'America".

Insonnolito, l'agente pensò che il signor Leverett avrebbe potuto fondare tranquillamente il culto dell'elettricità: aveva le stesse credenziali dei predicatori di Scientology, dei seguaci di Krishna o dei Rosacrociani. Immaginò il patio affollato di credenti a cui Krishna Leverett, o forse Sommo Elettrone Leverett, dispensava saggezza dalla sua poltrona a dondolo, interpretando le parole dei fili sfrigolanti. Comunque, era meglio che non rivelasse a nessuno quella sua fantasia, perché nel Sud della California quel genere di cose avevano la tendenza a diventare realtà.

Il signor Scott scese dalla collina quasi rasserenato, ma si ripromise di ammonire Bobby a non importunare più il signor Leverett.

Quella proibizione, però, non riguardava lui. Anzi, nei mesi successivi, il signor Scott si ripromise di fare di tanto in tanto una capatina a Casa Peak, per una dose di "saggezza elettrica." A poco a poco, l'agente immobiliare cominciò ad attendere con ansia quegli incontri, piacevolmente rilassanti e divertenti nel loro sottile delirio. Apparentemente, il signor Leverett non faceva nient'altro che starsene seduto sulla sua sedia a dondolo nel patio, eppure sembrava felice e sereno. A pensarci bene, era una bella lezione per tutti.

Ogni tanto, il signor Scott scopriva qualche buffo effetto collaterale della stravaganza dell'anziano uomo. Per esempio, mentre capitava che si dimenticasse di pagare le bollette del gas e dell'acqua, era puntualissimo nel saldare quelle della luce e del telefono.

Finché, un giorno, sul giornale apparve la notizia di brevi, ma consistenti, interruzioni di corrente a Chicago e a San Francisco. Sorridendo un po' perplesso al pensiero di quella strana coincidenza, il signor Scott decise di aggiungere la chiaroveggenza al culto dell'elettricità che aveva immaginato per il signor Leverett. — La storia della tua vita predetta nei fili della luce! — Quanto meno era una tecnica più originale della sfera di cristallo o del dialogo con Dio.

Soltanto in un'occasione emersero i riferimenti raccapriccianti che avevano profondamente turbato il signor Scott durante la loro prima conversazione, e fu quando il signor Leverett. ridacchiando, osservò: — Si ricorda quando le parlai dell'ipotesi di colpire i fili dell'alta tensione con un cavo di rame? Ho pensato a un sistema più semplice: dovrebbe essere sufficiente prendere una manichetta e indirizzare il getto dell'acqua verso i fili, tenendo in mano il boccaglio di metallo. Forse sarebbe meglio usare l'acqua calda e sciogliere prima nello scaldabagno una confezione di sale. — Quel giorno il signor Scott fu contento di aver impedito a Bobby di frequentare Casa Peak.

Ma a parte quell'episodio, il signor Leverett appariva sereno e felice come sempre.

Quando lo stato d'animo dell'anziano uomo mutò, fu un fatto improvviso, anche se, a posteriori, il signor Scott si rese conto che qualche avvisaglia c'era stata. Avrebbe dovuto intuire che qualcosa non andava fin dal giorno in cui, al termine di un discorso sconnesso, il signor Leverett aveva aggiunto: — A proposito, ho scoperto che la corrente elettrica va in tutto il mondo, come l'elettricità della radio e del telefono. Viaggia verso lidi stranieri in pile e condensatori. Percorre le linee dell'Europa e dell'Asia e penetra, in parte, anche in territorio sovietico. Immagino che sia perché vuole tenere d'occhio i Comunisti. Combattenti elettrici per la libertà!

La settimana successiva, quando ritornò a fargli visita, il signor Scott notò un profondo cambiamento nel suo amico. Il signor Leverett aveva lasciato la sedia a dondolo e stava passeggiando lungo il lato del patio opposto a quella in cui sorgeva il palo della luce, al quale, lanciava, di tanto in tanto, rapide occhiate curiose.

— Sono contento di vederla, signor Scott. Sono molto scosso. Penso che sia meglio che mi confidi con qualcuno, così, nel caso dovesse succedermi qualcosa, potrà riferire tutto all'FBI Anche se non so che cosa potrebbero fare.

"Questa mattina l'elettricità mi ha detto che ha un suo governo mondiale; ha avuto il fegato di chiamarlo proprio così! E che a lei non interessa un fico secco di noi o dei sovietici, e che nei nostri fili passa corrente russa e nei loro corrente americana! Insomma l'elettricità passa da una parte all'altra senza neanche un briciolo di vergogna! Quando me l'ha detto, avrebbero potuto mettermi KO con una freccia di carta.

"Ma quel che è peggio è che l'elettricità mi ha detto di essere assolutamente decisa a impedire qualsiasi guerra, anche se si trattasse di una guerra giusta o in difesa dell'America. Se i russi o gli americani premeranno il famoso bottone, l'elettricità si bloccherà! E non ci sarà verso di farle cambiare idea! Ucciderà con una scarica chiunque tenterà di lanciare i missili in qualche altro modo.

"Io l'ho supplicata, le ho detto che ho sempre pensato che fosse americana e leale, le ho ricordato Franklin ed Edison! Alla fine le ho ordinato di cambiare atteggiamento e di comportarsi come si deve. E lo sa lei che cosa ha fatto? Mi ha riso in faccia! Senza nemmeno una scintilla d'amore o di fedeltà!

"E poi mi ha minacciato! Mi ha detto che se cercavo di fermarla, o se avessi rivelato i suoi piani, avrebbe chiamato a raccolta i suoi fratelli selvaggi dalle montagne e che insieme mi avrebbero scovato e mi avrebbero ucciso! Signor Scott, io sono solo qui e con l'elettricità sul davanzale di casa! Che cosa posso fare?"

L'agente faticò enormemente a calmare l'anziano uomo, per lo meno quel tanto che bastava per potersela svignare. Alla fine fu costretto a promettergli che sarebbe ritornato l'indomani mattina di buon ora, ma nel suo intimo giurò a se stesso che non l'avrebbe fatto neanche con una pistola puntata alla testa.

Il suo compito non fu certo reso più semplice dall'elettricità, che, quel giorno, era particolarmente rumorosa e che, a un tratto, esplose in un ringhio al quale, voltandosi, il signor Leverett rispose, con voce dura: — Sì, ti sento, ti sento!

Quella notte, sulla contea di Los Angeles si scatenò uno dei rari nubifragi che si verificano in quella regione, accompagnato da terribili raffiche di vento e da torrenti d'acqua. Furono abbattuti palme, pini ed eucalipti, si verificarono gravi smottamenti e i grandi sfioratori quadrati di cemento si riempirono d'acqua dalle colline al mare.

Ma furono soprattutto tuoni e lampi a rincorrersi in cielo con particolare violenza. Svariate decine di persone, che non avevano mai assistito a simili fenomeni, tempestarono i telefoni della difesa civile per denunciare un attacco atomico.

Accaddero anche disgrazie molto strane. Sulla scena di una di queste la polizia convocò, il mattino seguente di buon ora, il signor Scott, perché si era verificata in una proprietà affittata da lui e anche perché, a quanto sembrava, era la sola persona che conoscesse la vittima.

Quella notte, il signor Scott si era svegliato al culmine del nubifragio, quando un fulmine accecante come un flash aveva squarciato il cielo e un tuono roboante era esploso proprio sopra il tetto della sua casa, simile allo schiocco di una frusta lunga un chilometro. Allora gli erano ritornate alla mente le parole del signor Leverett: come l'elettricità lo avesse minacciato di chiamare a raccolta i suoi fratelli selvaggi dalla cima delle colline e di ucciderlo. Ma quel mattino, alla luce del giorno, decise di non farne parola con la polizia, né di accennare alla mania del signor Leverett per l'elettricità: sarebbe servito soltanto a complicare le cose senza motivo e, forse, a dare corpo alla paura delirante che nutriva in cuor suo.

Il signor Scott giunse sulla scena di quella strana disgrazia quando ancora non era stato spostato niente, nemmeno il cadavere. Ovviamente, però, in quel momento non c'era corrente nel grosso cavo elettrico, corroso in diversi punti, che avvolgeva come una fune il corpo scheletrico dell'uomo, separato dalla sua carne soltanto dalla stoffa annerita del pigiama.

La versione dell'accaduto stilata dagli agenti di polizia e dai funzionari dell'ente energetico, a conclusione dell'indagine, fu la seguente: nel momento di massima intensità della perturbazione, uno dei fili dell'alta tensione era caduto a un centinaio di metri da Casa Peak. L'estremità, sferzata dal vento e dalla stessa tensione, era rimbalzata all'interno della camera da letto del signor Leverett attraverso la finestra aperta, e il cavo si era avvolto attorno alle gambe del poveretto, che in quel momento doveva essere ancora alzato, uccidendolo all'istante.

Per la verità si trattava di una ricostruzione un po' forzata, che non dava ragione di alcune altre strane circostanze: per esempio, del fatto che il cavo non solo aveva varcato la finestra, ma aveva oltrepassato anche la porta della camera per colpire l'anziano uomo nell'ingresso. E non spiegava neppure come mai il cordone grigio del telefono fosse arrotolato come un viticcio attorno al braccio destro del signor Leverett, quasi come se avesse voluto trattenerlo per impedirgli di fuggire prima che il cavo lo colpisse...

 

Li ho visti morire

Hang Head, Vandal!

di Mark Clifton

Amazing, aprile

 

Sul nostro abbandonato campo marziano di atterraggio pende una tuta spaziale inservibile, appesa ai rebbi desensibilizzati di una torre "Vieni-da-me". È riempita di paglia che. ne sono certo, è stata sottratta da qualcuna delle casse d'imballaggio che servirono a portare sul pianeta tanti delicati e sensibili strumenti di precisione, che non porteremo tutti indietro.

Nessuno sa quale membro dell'equipaggio abbia appeso là la tuta, prima della partenza, né perché l'abbia fatto. È uno spaventapasseri messo per tener lontano altra gente?

Più probabilmente, è solo un simbolo per testimoniare che qualcuno è stato là. Come iniziali incise in un antico capolavoro di inestimabile valore, che stiano a significare: "Io sono un esemplare troppo mediocre per creare alcunché di valido, però sono capace di compiere un atto di vandalismo. Ed esso prova, inoltre, che sono stato qui!".

O si tratta di un suicidio simbolico, un'espressione di colpevolezza tanto preponderante da indurre quell'uomo a impiccarsi in effigie sulla scena del suo delitto?

Il capitano Leyton la vide l'ultima mattina, prima della partenza. La vide, e sentì montare dentro di sé un'improvvisa ondata della sua abituale disciplina; e immediatamente formulò il brusco ordine di staccare quella cosa. "Trovate chi l'ha appesa: portatelo da me."

L'ira... l'ordine. Morirono insieme. Inespressi.

Qualcosa, nella posizione di quell'immagine imbottita appesa là, dovette penetrare fino nella personalità intima soffocata entro la spessa corteccia del comandante.

Il malinconico abbandono, lo scoraggiamento; anche lui doveva provare quel soffocante senso di vergogna che ci sopraffaceva tutti.

Sia che l'elmetto fosse scivolato in avanti spinto dal proprio peso perché il vandalo non lo aveva imbottito con abbastanza paglia (è una caratteristica dei vandali essere sciatti anche nel loro vandalismo), sia che, invece, quello fosse il tocco di un artista consumato, capace di plasmare acciaio e gomma, plastica e paglia, fino a conferir loro l'espressione del nostro sentimento comune... comunque fosse, insomma, il risultato era stato raggiunto.

Il Capitano non ordinò che l'effigie venisse tolta. Nessuno si offrì di farlo, come nessuno domandò se quello poteva essere il suo desiderio... Nemmeno l'onnipresente guardiamarina sempre in cerca di approvazione.

Così, su un abbandonato campo di atterraggio marziano pende una tuta smessa, immagine dell'uomo, imbottita di paglia, con la paglia al posto del cuore, della mente, dell'anima e via dicendo.

Al momento, quella parve una soluzione logica a un problema pressoché insolubile.

Il dottor VanDam la espose nel suo memorabile discorso alle Nazioni Unite. È difficile dire se fosse o meno consapevole del semicerchio di volti indistinti nell'assemblea silenziosa; fatto sta che questa vista, di secondaria importanza, non oscurò la ben più potente visione della gran volta fitta di stelle scintillanti nello spazio buio.

Può anche darsi che non si rendesse conto delle realtà politiche, che oscurano sempre i sogni degli uomini. Quanto disse sarebbe stato soppesato dai delegati in base al vantaggio personale che poteva derivarne per la loro posizione. Secondariamente, le sue parole sarebbero state soppesate in termini di vantaggio nazionale. In terzo luogo si sarebbe considerato quale vantaggio se ne sarebbe potuto trarre per i blocchi razziali-religiosi-di colore. E, quarto stadio di considerazione, ne avrebbero ricavato vantaggio le piccole nazioni rispetto alle grandi? O invece quel progetto avrebbe aumentato i privilegi speciali delle grandi, a danno delle piccole? Quindi, il progetto avrebbe potuto mantenere lo "status quo" senza mutar nulla, in modo che coloro i quali comandavano potessero restare al comando, pur dando contemporaneamente l'illusione di progresso in modo da ridurre al silenzio i liberali sempre schiamazzanti? E, infine, come sesta considerazione, si poteva anche fugacemente pensare che l'umanità ne avrebbe forse tratto qualche vantaggio.

Anche se il dottor VanDam sapeva che queste realtà politiche dovevano sempre avere la precedenza sui sogni della scienza, non lo diede tuttavia a vedere. Era come se pensasse unicamente alla magnificenza delle stelle e al sogno umano di raggiungerle. Era appunto la meta del raggiungimento delle stelle che gli ispirò il discorso.

— Dobbiamo riassumere il problema — disse — ed è semplicissimo. Esiste un limite alla possibilità della scienza di teorizzare senza provare le teorie per vedere se sono valide. Prima o poi, il teorico deve cedere il passo al tecnico che, per provare il valore delle teorie, si chiede solo: "Funzionano?".

"Abbiamo sempre saputo che i razzi di cui ci serviamo per i nostri piccoli, timidi voli spaziali, possono portarci solo fino ai pianeti più vicini, in quanto esiste quell'inesorabile quantità di tempo per la spinta iniziale. A meno che la spinta non continui, l'effimera vita umana compirà più volte il suo ciclo prima che siamo in grado di raggiungere la stella più vicina. Né le nostre limitate risorse sono capaci di rifornire i motori a ioni. Dobbiamo trovare il modo di carburarli con la polvere spaziale che si raccoglie lungo il tragitto.

"Per disporre di velocità continua, dobbiamo disporre di energia nucleare in continuità. Per disporre in continuità di energia nucleare, dobbiamo eseguire molti esperimenti nucleari. Ora, siamo convinti di conoscere il sistema per cui è possibile prendere dei minerali qualsiasi, e non minerali speciali, e convertirli in energia nucleare. Siamo convinti di poterlo fare, in teoria. Ma è una teoria che il tecnico non ha ancora messa alla prova con la sua domanda: 'Funziona?'.

"Non possiamo fare questi esperimenti sulla Terra. Cosa succederebbe se non funzionasse? Non osiamo servirci della Luna. La sua irrilevante forza di gravità la rende troppo preziosa, in vista dei futuri viaggi stellari. La Luna sarà il nostro affaccendatissimo campo di atterraggio; non osiamo contaminarla, né vogliamo correre il rischio di distruggerla.

"Siamo arrivati a un punto limite. Tanto sulla Terra che sulla Luna, non possiamo procedere senza prove pratiche. Ma non osiamo farle né sulla Terra né sulla Luna. Bisogna trovare un altro posto per i nostri esperimenti.

"I nostri esploratori ci hanno fornito prove conclusive che Marte è un mondo morto. Un mondo inutile, nei riguardi della vita. Inutile anche come fornitore di minerali, perché i nostri piccoli razzi non sono in grado di trasportare carichi commerciali. Un mondo inutile per la colonizzazione, con un'atmosfera troppo tenue per i polmoni umani e con acqua insufficiente a coltivare vegetali commestibili. Gli esseri umani dovrebbero vivere in locali a tenuta stagna, a meno di indossare in permanenza tute spaziali. Insomma, un mondo inutile sotto tutti i punti di vista pratici.

"Però è di valore inestimabile per la scienza. Lassù, infatti, senza distruggere nulla che possa servire all'uomo, avremo modo di sperimentare le nostre teorie. Pensiamo di poter dare inizio a una reazione nucleare nella roccia e nel terriccio comuni, e mantenerla sotto controllo in modo da produrre un continuo flusso di energia. Abbiamo la convinzione di riuscire a impedire che sfugga al nostro controllo.

"Se le innumerevoli prove che dovremo eseguire contamineranno il pianeta, o perfino lo distruggeranno assai lentamente, quanto avremo guadagnato in cognizioni sarà ben più importante della perdita di quel territorio inutile."

Vi fu un movimento nell'Assemblea, qualcosa di mezzo tra un'esclamazione di orrore e un mormorio di ammirazione per l'audacia di quell'uomo, pronto a sacrificare un intero pianeta per la sua sete di conoscenza. Non sapevano, fino a quel momento, che eravamo arrivati tanto lontano.

Poi, ripensandoci, provarono un senso di soddisfazione. Pareva una soluzione semplice di un problema impossibile: non solo le prove di VanDam, ma qualunque esperimento nucleare avrebbe avuto luogo lontano dalla Terra! La paura si sarebbe placata e sarebbero stati sedati i clamori degli umanisti, che avrebbero preferito vedere l'uomo ristagnare nell'ignoranza piuttosto che rischiare l'avvenire per imparare. Tutto questo sarebbe stato di vantaggio, a ogni livello di realtà politica. E se ci fosse stato ancora qualcuno che la pensava in questi termini, sarebbe stato addirittura un bene per l'umanità in generale!

— Io non sono un mistico — continuò VanDam, quando brusii e mormorii si furono acquietati — ma la convenienza di questo particolare pianeta, situato lì dove si trova, abbastanza lontano perché noi si sia dovuto progredire molto, scientificamente, per raggiungerlo, e abbastanza vicino perché sia a portata di mano quando ne abbiamo bisogno per un ulteriore progresso... ebbene, mi pare una coincidenza mistica.

(Questo, detto a beneficio di coloro che avrebbero dovuto presentare le solite mozioni per ottenere l'approvazione delle Autorità Superiori allo scopo di fare quanto avevano sempre avuto intenzione di fare.)

— Ora, mi domando: le nazioni della Terra si troveranno d'accordo a che noi ci serviamo di questo luogo così conveniente e inutile sotto tutti gli altri punti di vista, situato proprio nella posizione che ci occorre, e che ci attende da ere, finché non saremo pronti a servircene?

La risposta a questa domanda doveva essere senz'altro favorevole.

Il dottor VanDam non vi accennò, e i membri dell'assemblea, essendo uomini politici incapaci di vedere al di là del prossimo voto o approvazione non dissero: — Sì, abbiamo elaborato una teoria per iniziare e continuare la conversione nucleare a lenta combustione della roccia e del terriccio comuni in energia. Però, finora non sappiamo come fare per poterla fermare.

"Pensiamo che probabilmente, nel futuro, gli uomini scopriranno il modo di fare cessare il processo. Pensiamo che la combustione lenta non accelererà e non sfuggirà al controllo in modo da consumare un intero pianeta, prima che noi abbiamo scoperto il sistema per spegnerla. Pensiamo che la scienza futura possa perfino trovare il modo di decontaminare il pianeta. Tutto questo noi lo speriamo.

"Però sappiamo che la scienza della nucleonica arriverà a un punto morto, se non avremo modo di fare esperimenti pratici. Siamo convinti che, anche se si consumerà tutto un pianeta, che comunque è un pianeta inutile, ne sarà valsa la pena."

Comunque, ci fu la solita esigua minoranza che chiese quali diritti avessimo di distruggere un pianeta del sistema solare. Ci sono sempre simili minoranze, e, come sempre, il resto del mondo, occupato a trovare il sistema di fare quello che comunque voleva fare in modo che sembrasse l'Unica Cosa Giusta, non ebbe difficoltà a ridurla al silenzio.

A ogni modo, le conseguenze le avrebbero affrontate gli uomini del futuro, o così almeno pensavamo noi.

Dico noi, perché io ero uno dei membri del Progetto Combustione Lenta. Con questo non voglio atteggiarmi a eroe. Non c'erano eroi. Giusto o sbagliato che fosse, non era concepito certo come uno di quegli spettacolari progetti che si vedono alla televisione, fatti apposta per trasformare la scienza in emotività pubblica. Non vennero fatte ricerche in tutto il paese per trovare eroi fotogenici che prendessero parte al progetto.

I giornalisti, fedeli alla loro tradizione di cercar di ridurre, scrivendo, anche le più alte conquiste scientifiche al più basso comun denominatore di sciropposo sentimentalismo o di avido sensazionalismo, tentarono di trasformare VanDam in un eroe, dato che era il capo della sezione scientifica del progetto. Ma lui non era il tipo.

— Non pensate, signori — rispose con acre disprezzo — che sia ormai tempo che il pubblico diventi abbastanza maturo da appoggiare le ricerche scientifiche per il solo fatto che ne abbiamo bisogno, e non perché avrebbe piacere di andare a letto con qualche bellimbusto senza cervello che voi fate passare per eroe?

Questa risposta non era tale da incoraggiare i giornalisti.

Cercarono allora di esaltare il capitano Leyton, capo della sezione trasporti, ma le sue reazioni furono ancor più irripetibili.

Non scavarono abbastanza a fondo per arrivare fino a me. Ero il capo delle comunicazioni, il che è un modo come un altro di dire che ero un aggiustatore di televisori col mal di testa. Del resto, anche se avessero parlato con me, non ne avrebbero ricavato molto.

In me non c'è niente che corrisponda all'ideale sentimentale dell'eroe. Non sono nemmeno un tipo originale. Se sono esperto nel mio ramo, è solo perché ho imparato in fretta quanto qualunque uomo pigro, ma con un briciolo di cervello, è in grado di imparare; e cioè che la vita è più facile per gli esperti che per gli ignoranti. E questo non è esattamente l'atteggiamento eroico che piace al pubblico, anche se corrisponde alla realtà.

Possedevo però un vantaggio, che mi rende qualificato a raccontare questa storia.

Al giorno d'oggi, la supervisione sta seduta sul suo didietro in un ufficio, circondata da monitor televisivi che mostrano ogni fase di cui i supervisori sono responsabili; e viene premuto un bottone quando qualcuno cerca di prendersela comoda o non fa quello che deve fare nel modo giusto.

Qualcuno deve tenere in piedi il sistema e controllare il monitore o i monitori. Io, così, ho visto tutte le cose importanti che sono successe.

E questa è anche tutta la mia partecipazione alla faccenda. Non sono il prototipo di una nuova specie di eroe. Non diventai eroico. Mi limitai a guardare quello che succedeva, e la nausea sconvolse lo stomaco a me come a tutti gli altri. E adesso batto in ritirata, scosso e vergognoso, senza capire bene, insieme agli altri. Non siamo eroi: no, nessuno di noi lo è.

Fin dal principio, il progetto venne condotto e considerato da un punto di vista rigidamente scientifico, come uno sforzo di gruppo, e la personalità di ciascuno passava in secondo piano ed era sottomessa alle necessità collettive. Non c'erano eroi che emergessero sulla mediocrità generale. Non era previsto che accadesse nulla di quanto dovrebbe accadere secondo le fantasie romantiche: quei pericoli imprevisti, quei terribili incidenti, quelle spaventevoli situazioni che si presentano all'improvviso, tanto care ai sadici cuoricini dei lettori e degli spettatori.

Per quanto ne so, nessuno prese a pugni qualcun altro, né lo abbatté a revolverate; sistema, questo, pressoché unico, secondo i romanzieri, per affrontare e vincere i problemi della vita.

Mettemmo insieme l'astronave principale sulla Luna, servendoci dei pezzi trasportati dai razzi.

Gli urli di dolore dei contribuenti arrivavano quasi fin lassù. Una cosa era lavarsi le mani del tormentoso problema degli esperimenti nucleari, decidendo che venissero eseguiti su Marte; un'altra era pagare per realizzare il progetto.

Grazie alla leggera forza di gravità della Luna, ci ritrovammo nello spazio con poco più del solito conflitto fra spinta e inerzia, sia fisiche che psicologiche.

Senza toccare la preziosa riserva di carburante che speravamo ci sarebbe servito per riportarci indietro, riuscimmo a sviluppare una velocità capace di portarci su Marte in un mese soltanto. Non era necessario far vedere, perché nessuno se ne sarebbe curato, come noi ventiquattro membri dell'equipaggio stessimo rattrappiti nello spazio angusto lasciato libero dall'equipaggiamento e dagli strumenti che dovevamo portare.

Costruzione e manutenzione avevano svolto le loro mansioni a puntino, e, una volta tanto, anche l'ispezione aveva fatto a fondo il suo dovere. Riuscimmo a capovolgerci nel momento giusto, e i motori addolcirono la nostra discesa sulla pianura marziana, a est di una bassa catena di colline.

Tutti hanno visto di certo i documentari abbastanza spesso per essersi fatti un'idea di quanto sia incredibilmente ostile la superficie di Marte. L'aria troppo rarefatta, che lascia intravedere qualche stella anche in pieno giorno; il deserto senz'acqua; gli estremi raggiunti dalla temperatura; la desolazione...

Ah, la desolazione! La terrificante desolazione!

 

La superficie della Luna è già abbastanza brutta, ma per lo meno c'è la grande sfera della Terra, che pare tanto vicina, in quel mondo senz'aria, da dar l'illusione di poterla facilmente raggiungere e quasi toccare, toccare la propria casa, sapere che è ancora là, immaginarla e quasi vederla.

— Vedi quel pezzettino di terra laggiù sulla costa orientale del continente nordamericano? Io abito là!

— Sì — risponde un altro. — E chi è quel tizio che sta entrando in casa tua senza bussare mentre tu sei via?

Qualche volta sembra proprio così vicino!

Su Marte, la Terra non è che uno dei tanti punti luminosi nel buio cielo notturno, così lontano che la prima reazione è di tremenda angoscia, per la schiacciante convinzione che in quell'immensità ostile l'uomo non vedrà mai più la propria casa né mai più godrà del crepuscolo profumato di una dolce, umida estate, né del calore dell'affetto.

Gli esploratori non hanno mentito. Nulla, in nessun posto, poteva essere più inutile per l'uomo del pianeta Marte. Inutile, salvo che per l'unico scopo che ci aveva condotti lassù.

Scavammo per scendere sotto la superficie.

Come ho già detto, tutti hanno visto tanti documentari per cui è inutile che stia a descrivere come scavammo per costruirci gli alloggi e i laboratori, al di sotto di quella superficie spietata. Adoperammo la roccia di scavo per fabbricare del rozzo cemento, che non sarebbe durato molto, ma abbastanza tuttavia per resistere finché fossimo rimasti. Con quel cemento coprimmo la superficie dei nostri quartieri di abitazione. Non era una distesa abbastanza vasta per servire come campo di atterraggio, dal momento che la massima parte dei nostri viaggi sarebbe consistita in tragitti compiuti entro le tute pressurizzate a reazione, però serviva a impedire che sfuggisse aria dall'interno, se qualcuno dei nostri dispositivi di sicurezza si fosse guastato.

E sarebbe anche servito a impedire che penetrassero le radiazioni mortali che noi stessi avremmo provocato.

Innalzammo "Torri-vieni-da-me" su ciascun montacarichi che sarebbe servito a far scendere gli uomini in tuta spaziale ai livelli inferiori dove, passando attraverso porte a tenuta stagna, avrebbero raggiunto i rispettivi alloggi. C'era una di quelle Torri per ogni sei uomini, sintonizzata coi generatori inseriti nelle tute, e sarebbe servita a riportare sano e salvo ogni individuo alla base; erano fidate come piccioni viaggiatori ben ammaestrati, atte a garantire che nessuno si perdesse in quel pianeta ostile. E, se mai si fossero verificati casi d'emergenza, grazie alle Torri si sarebbe evitato che una folla in preda al panico si avventasse verso un'unica entrata, per morirvi, magari, mentre gli altri ingressi restavano liberi e inutilizzati... In genere, è così che si comporta l'uomo nei momenti di panico.

Prima di dare inizio agli esperimenti nucleari, dovemmo portare a termine tutti questi lavori. Chiunque si sia fatto un'istruzione scientifica guardando gli attori in camice bianco alla televisione, non ha la più vaga idea di quanto massacrante lavoro manuale debba svolgere un vero scienziato.

Una volta terminati gli scavi, quando la terribile desolazione dell'universo indifferente fu chiusa fuori, provammo un senso di profondo sollievo. (È questo il lato più difficile da capire, per chi voglia entrare nella mentalità scientifica. È molto più consolante credere che l'universo sia ostile che non ammettere che, semplicemente, non gliene importa nulla dell'uomo, sotto qualunque punto di vista.) Chiusi nei nostri quartieri a tenuta d'aria, potevamo anche illuderci di star lavorando in uno dei laboratori terrestri ad aria condizionata.

Serviva? Certo che serviva.

Malgrado la mia stanchezza, però, non trovavo nemmeno il tempo di dormire. Controllare tutto quel che andava svolgendosi nei vari posti dove si sarebbero eseguiti gli esperimenti significava che era necessario installare telecamere in quei posti. E, nonostante il reclutamento del personale avesse avuto luogo con un sistema estremamente rigoroso, i miei due assistenti dovevano essere dei raccomandati, perché ogni installazione esigeva invariabilmente la mia presenza.

Ero presente, e sempre mi mancava quel piccolo attrezzo che sarebbe stato tanto utile, ma che era stato depennato dalla lista che avevamo sottoposto a funzionari più preoccupati di dimostrare che sapevano eliminare molto peso dal carico, che non di aiutarci.

Comunque, in un modo o nell'altro, riuscimmo a cavarcela.

Però io avevo fatto una piccola lista degli individui che sarei andato a scovare per pestarli sul muso al mio rientro sulla Terra. Forse, i produttori hollywoodiani, i quali pensano che l'unico sistema di risolvere un problema consista nel pestare qualcuno o nel farlo fuori a revolverate, non hanno poi tutti i torti. In cima alla lista, in lettere di scatola, c'è l'ideatore delle tute spaziali, il quale pare convinto che un uomo sia in grado di maneggiare le parti incredibilmente piccole degli equipaggiamenti elettronici miniaturizzati con quegli strumenti rozzi che ci avevano dato da avvitare in fondo alle maniche delle tute.

Comunque, bene o male, ce la cavammo. In qualche modo, dal caos sortì l'ordine e incominciarono gli esperimenti. Le teorie si dimostrarono valide, qualche volta; più spesso, però, il risultato era un sospiro, un'alzata di spalle, e un ritorno al tavolo da disegno.

Gran sorpresa dopo tre mesi che eravamo arrivati: atterrò un'astronave da rifornimento. Conteneva più che altro viveri e champagne! Roba che la gente, a casa, era convinta di desiderare, se fosse stata al nostro posto. Non mancavano fotografie eccitanti, come se non fossimo già abbastanza turbati senza bisogno che ci ricordassero certe cose. Però, non c'era nessuno degli strumenti che avevamo richiesto per radio in previsione del caso che i contribuenti fossero stati disposti a rinunciare a una bibita e a una sigaretta a testa per raggranellare i soldi e mandarceli. Poiché il pubblico non poteva capire il nostro bisogno di equipaggiamento, così non ci mandò niente. I miracoli avvengono senza sforzi né equipaggiamenti; avvengono così solo per esaudire i desideri della gente.

I pacchi di dolci casalinghi furono tuttavia i benvenuti, dopo una dieta di alghe idroponiche; però io avrei sempre preferito una manciata di transistori miniaturizzati.

Altri dichiararono che avrebbero scambiato i dolci per un ugual peso di solide biondine pettorute; ma a questo, sicuramente, i pasticcieri terrestri avevano addirittura preferito non pensare.

I tre uomini che costituivano tutto l'equipaggio dell'astronave da rifornimento promisero, al momento di partire per il viaggio di ritorno, che avrebbero detto a chi di dovere di che cosa avevamo veramente necessità; ma non credo che il messaggio sia mai stato trasmesso e ascoltato dal pubblico dei teleutenti.

E poi c'è la convinzione che gli scienziati siano creature fredde, insensibili, disumane che badano e pensano solo alle cose nobili, sagge e superiori.

In principio, avevo pensato che una volta terminati i pesanti lavori di installazione, avrei potuto girellare un po' liberamente, con atteggiamento saggio e nobile. Ma non ebbi tanta fortuna. Non facevo in tempo a sistemare le installazioni per un esperimento, che l'esperimento era finito e io dovevo smantellare le mie installazioni, trasferirle, e tornarle a impiantare da qualche altra parte. Avevamo creduto che la gravità di Marte, essendo solo il trentotto per cento di quella terrestre, ci avrebbe facilitato il lavoro. Ma, cionondimeno, ci toccò sollevare, spingere, tirare, trascinare e imprecare.

Ma in fin dei conti nessuno ha voglia di star a sentire quello che uno scienziato è costretto a fare per ottenere il suo miracolo.

Il succo di tutto quanto è l'illusione che un miracolo possa effettuarsi senza alcuna fatica e che, per ottenerlo, basti desiderarlo.

Va bene. Dunque, ottenemmo il miracolo.

Adesso eravamo finalmente pronti a tentare l'esperimento decisivo, che era poi il motivo principale della nostra venuta su Marte: il Processo Combustione Lenta.

VanDam scelse una piccola sacca al centro di quel piccolo ammasso di collinette situato a ovest rispetto ai nostri alloggi; quelle collinette che tutti hanno visto nelle immagini inviate via radio sulla Terra.

Allora lo ignoravamo, ma quell'ammasso di collinette stava provocando un gran chiasso fra gli archeologi, sulla Terra. Nella spedizione non era stato incluso nessun archeologo, e adesso stavano facendo un gran chiasso perché, secondo loro, quelle colline sembravano artificiali. C'era qualcosa di più del sospetto che quelle colline fossero state un tempo delle piramidi incredibilmente antiche, forse sgretolate dalle intemperie già da molti eoni, all'epoca in cui il pianeta era più giovane, prima che avesse perduto tanta parte della sua atmosfera; era probabile che celassero ancora qualcosa nelle loro viscere.

Naturalmente, noi non sapevamo niente di tutto questo. L'Amministrazione giudicò inutile affliggerci con simili sciocchezzuole. A dirla tutta, poi, i dubbi degli archeologi non uscirono mai dall'ambito dell'ambiente accademico, e nemmeno il pubblico ne seppe mai niente. Invece, l'Amministrazione avrebbe dovuto badarci. Ma quando mai gli uomini ascoltano quello che potrebbe intralciare i loro progetti e magari rovinarli in parte?

Sistemammo tutto in quella piccola sacca al centro delle colline. Il posto era ideale dal nostro punto di vista, perché l'elevazione delle colline ci avrebbe dato modo di sistemare le telecamere sulla sommità, in modo da mettere a fuoco il cratere che, secondo le nostre speranze, sarebbe apparso.

Era necessario un intero anello di telecamere. Pareva che i fisici condividessero la teoria del pubblico, secondo cui a me bastava esprimere un desiderio per disporre degli apparecchi che mi erano necessari. Tuttavia, riducendo al minimo necessario le apparecchiature degli altri progetti, fui in grado di accontentare le richieste di Combustione Lenta senza incorrere nelle ire degli altri.

Le teorie di VanDam si dimostrarono valide.

In un primo tempo, per scoprire la presenza di qualche risultato, furono necessari gli strumenti; ma, a poco a poco, si incominciò a vedere anche a occhio nudo il foro che incominciava a formarsi, e che diventava sempre più largo e profondo, progressivamente.

Io non ero un esperto in materia, ma a quanto pare, sembrava che venisse intaccato uno strato molecolare per volta, e che ciascuno di codesti strati, a turno, attirasse quelli circostanti e sottostanti, mentre i suoi protoni ed elettroni sprigionavano l'ultima carica di energia.

L'esperimento non funzionò alla perfezione, in quanto il processo di combustione avrebbe dovuto essere completo senza sottoprodotti sotto forma di fumo e di fuoco. Unico indizio apparente del suo svolgersi, per l'occhio umano, avrebbe dovuto essere il lento approfondirsi e allargarsi del foro nel terreno.

Invece, vi furono dei residuati sotto forma di molecole non completamente consumate, che si rivelavano in veste di fiamme alonate da un fumo sempre più denso, che s'innalzava in lente volute nell'aria sottile, sollevate solo dal proprio calore, e che poi ricadevano, contaminando tutto ciò che toccavano. Il tutto, naturalmente, per accrescere le mie difficoltà.

I fisici si mordevano le mani perché io non disponevo dell'equipaggiamento a raggi infrarossi adatto a penetrare attraverso il fumo; e chissà perché io non ero così in gamba da far schioccare le dita e farlo comparire sull'istante. Accidenti ai pacchi di dolci che ci avevano mandato invece dell'equipaggiamento di cui avevamo bisogno! Accidenti ai funzionari che avevano deciso che non ci occorreva. La mia lista personale andava allungandosi.

Tuttavia, riuscii ancora a fare un piccolo miracolo, trasformando della roba, destinata a tutt'altro scopo, in materiale che funzionava come i raggi infrarossi. Riuscimmo quindi a vedere, attraverso il fumo, l'interno del cratere infuocato.

E riuscimmo a vedere abbastanza.

Era una tarda mattinata di un martedì; c'era ancora chi ci teneva a queste distinzioni, come quando era a casa, circa tre settimane dopo aver dato inizio all'esperimento. Il cratere aveva un diametro di circa dieci metri, ed era altrettanto profondo. Aumentava con velocità superiore alle previsioni di VanDam, senza tuttavia sfuggire al controllo degli scienziati. Ma se anche così fosse stato, non avremmo potuto fermarlo. Non sapevamo come sarebbe stato possibile.

Stavo cercando di mettere meglio a fuoco la parete meridionale del cratere, quando questa scomparve, come una bolla di sapone. Ma io, ormai, avevo messo bene a fuoco i miei apparecchi, e potei vedere.

Vidi quello che succedeva laggiù, in quell'enorme sala a volta. Vidi i Marziani che ci abitavano, accartocciati, carbonizzati, morire tra le fiamme. Vidi capolavori di inestimabile valore annerirsi e sbriciolarsi, oppure esplodere o diventar polvere.

E fu in quel momento che gli scienziati, i quali osservavano attentamente il progredire dell'esperimento nei monitor, sentirono il senso del giubilo che riempiva i loro cuori trasformarsi in terribile colpa.

Anch'io provai lo stesso sentimento. Perché, naturalmente, vidi tutto, dal momento che stavo controllando il monitor principale.

Vidi quelle persone in miniatura annerire, accartocciarsi e morire in un attimo.

Sulla Terra, fra milioni e milioni di gente normale nasce un unico essere minuscolo, che cresce e si sviluppa in proporzione, perfetto e infinitamente più bello delle grosse, goffe, rozze persone normali, che possono solo ammirarlo e ne ricorderanno la delicata perfezione di miniatura, con nostalgico desiderio, per tutta la vita.

Da tali esseri eccezionali derivò forse la leggenda comune a tutti i popoli, in tutte le epoche, delle fate. A meno che, ere ed ere fa, non vi siano stati traffici fra la Terra e Marte. O che i coloni originari di Marte non siano poi divenuti, per processi di mutazione, dei giganti sulla Terra? Erano persone, in miniatura, ma persone come noi.

Io li vidi. Forse, in quel locale non erano più di dodici, ma sicuramente c'erano altri locali. C'era, forse, un labirinto di stanze sotterranee. Forse c'era un'intera civiltà che, come noi stessi su Marte, s'era nascosta sottoterra, per proteggersi dall'atmosfera sempre più rarefatta del pianeta moribondo.

E noi avevamo dato l'avvio alla distruzione atomica del pianeta. L'avevamo incominciata e non potevamo farla finire. La corrosione si allargava continuamente.

Li vidi morire, e provai, non so come, il loro stesso dolore.

Ma non ne morii.

Lo porto con me. Lo porterò sempre con me.

 

Questo è tutto.

Negli anni che verranno, la gente della Terra che non ha visto quel che vedemmo noi, che non ha provato il dolore e il senso di colpa che provammo noi, si meraviglierà per il modo come ci siamo comportati dopo quella scoperta.

Oh, c'è molto da meravigliarsi! E molto da domandarsi: se c'era una civiltà, su Marte, da dove veniva il cibo? Se quella gente era capace di trasformare la roccia in nutrimento, perché non fu in grado di arrestare la distruzione atomica del pianeta iniziata da noi? Se riuscirono a infonderci un tale dolore per cui non potemmo pensare altro che a fuggire, come monelli colti nell'atto di compiere un gesto vandalico, perché non lo fecero prima che noi accendessimo il fuoco che non eravamo capaci di spegnere?

Oh, ci sono molte domande senza risposta! La gente si domanderà perché abbiamo abbandonato quasi tutti l'equipaggiamento, perché siamo rimasti a guardare per un'ora, in preda all'orrore, e poi, come di comune accordo, senza che nessuno dicesse niente, abbiamo incominciato a ritirarci e a fare i preparativi per la partenza.

Eravamo come ragazzi che, convinti di rompere il vetro di una scuola, in un impeto di furia distruggitrice, si fossero resi conto di aver danneggiato un sacrario.

Col tempo, forse, daremo una spiegazione logica a tutti questi interrogativi. Forse la troveremo nel corso del lungo viaggio di ritorno.

Incominceremo col dire che non fu colpa nostra. Che anche loro hanno una parte di colpa. Ma certo!

Anzi, erano più colpevoli di noi! Perché non uscirono dalle loro tane per affrontarci? Anche se non avevano armi, potevano tentare lo stesso. Chiunque fossero, se avevano un po' di sangue nelle vene e un minimo di fegato, dovevano uscire a combattere, per difendere la patria, la bandiera, la famiglia!

Probabilmente finiremo col metterci il cuore in pace, come succede di solito, normalmente, dopo un atto vandalico. È umano che sia così.

Ma ora come ora, pensiamo solo a svignarcela.

 

Sul nostro campo di atterraggio abbandonato di Marte, pende una tuta spaziale in disuso, appesa ai rebbi disensibilizzati di una "Torre-vieni-da-me". È riempita di paglia, che, ne sono certo, è stata sottratta a qualcuna delle casse d'imballaggio che servirono a portare sul pianeta tanti delicati e sensibili strumenti di precisione, molti più di quanti ne riportiamo indietro.

Nessuno sa quale membro dell'equipaggio, prima della partenza, abbia appesa là la tuta, né perché l'abbia fatto.

Non riportiamo indietro tutto ciò che abbiamo portato, ma non abbiamo perso la testa, e ci siamo ricordati di riportare gli strumenti di maggior valore, dopo un'accurata cernita.

L'unico strumento insensibile, incompleto, rozzo, che riportiamo sulla Terra è l'Uomo.

 

L'uomo del tempo

The Weather Man

di Theodore L. Thomas

Analog, giugno

 

Theodore L. Thomas è originario di Lancaster, Pennsylvania, la città natale di mia moglie. Ingegnere chimico e avvocato, si è dedicato fin da giovane alla scrittura e, negli ultimi trentacinque anni, ha firmato più di cinquanta racconti brevi, quasi tutti di ottima qualità, e due bei romanzi (entrambi in collaborazione con Kate Wilhelm) The Clone e The Year of the Cloud (1968). Fra le sue migliori composizioni brevi ricordiamo "December 28th", "The Doctor", "Early Bird" (con Ted Cogswell), "The Far Look" e "Satellite Passage". Con lo pseudonimo di "Leonard Lockhard" ha inoltre pubblicato una decina di racconti, tutti molto divertenti, che hanno per protagonista un certo signor Palese, di professione avvocato. "L'uomo del tempo " è forse il racconto più bello che sia mai stato scritto sul controllo e la manipolazione del clima, un argomento che potrebbe diventare di grande attualità verso la fine di questo secolo.

 

"...E il nome Ufficio Meteorologico continuò a venire usato, anche se l'organismo era un po' cambiato. Perciò, il Congresso Meteorologico si componeva di tre organi: il Consiglio Meteorologico, investito di competenze politiche; il Comitato Meteorologico, a cui spettavano compiti di ricerca scientifica e l'Ufficio Meteorologico, che aveva mansioni operative. Ciascun organo agiva in condizioni di relativa indipendenza dagli altri e..."

Enciclopedia Columbia, 32a Edizione

Columbia University Press

 

Jonathan H. Wilburn aprì gli occhi e avvertì immediatamente una vaga tensione nell'aria. Perplesso, indugiò alcuni istanti sotto le coperte per cercare di comprenderne la ragione. Era l'inizio di un giorno come gli altri a Palermo. Dalla strada gli giungevano i soliti rumori, l'appartamento era immerso nel silenzio e lui si sentiva in forma. Proprio così. Si sentiva bene, molto bene, pieno di forza e di energie mentali, pronto ad affrontare qualsiasi cosa quella giornata avesse in serbo per lui.

Con un solo movimento allontanò le coperte e mise i piedi giù dal letto. Non male, considerando che aveva compiuto cinquant'anni la settimana prima. Entrò nella doccia e sciolse il pigiama in una ricca schiuma di sapone detergente. Si asciugò e rimase immobile in mezzo alla cabina armadio. Si sbarbò, si vestì e fu solo quando infilò la giacca che se ne ricordò.

Quella notte, mentre dormiva, aveva preso una decisione: era giunto il momento per lui di affrontare una nuova sfida. Aveva cinquant'anni e una solida posizione, che aveva raggiunto limitandosi ad assecondare il corso degli eventi. Adesso doveva imboccare una strada nuova. Per emergere in politica bisogna darsi da fare, accettare le sfide e i rischi che comportano.

Wilburn finì di infilarsi la giacca. Poi, avvicinò il viso allo specchio e scoprì i denti. Adesso capiva perché quel giorno gli sembrava diverso. Ma questo non contribuì ad allentare la sua tensione. Al contrario, a partire da quel momento avrebbe dovuto imparare a conviverci. Avrebbe vissuto e lavorato in punta di piedi, studiando il modo per aggrapparsi al carro del dio della fortuna.

Per venticinque anni aveva agito con estrema cautela, calcolando ogni mossa in modo da avere sempre il successo assicurato. Una a una, aveva scalato tutte le montagne del potere politico, conquistando prima la Camera, poi il Senato, le Nazioni Unite, la carica di ambasciatore, la presidenza di svariati istituti e, per finire, un seggio all'interno dell'organismo più prestigioso: il Congresso Meteorologico. Godeva di un'ottima reputazione; aveva la fama di diplomatico brillante e affabile, dotato di grandi capacità di mediazione, che lo mettevano in grado di comporre i dissidi fra i Consiglieri. Ma, come in montagna, anche in politica, più si sale in alto e più l'ascesa si fa ardua e lenta. Recentemente, Wilburn si era reso conto di non aver compiuto nessun passo avanti negli ultimi quattro anni. Poi era arrivato il suo cinquantesimo compleanno.

Quel mattino, Jonathan Wilburn fece colazione con sua moglie. Harriet era una donna snella, discreta, saggia e consapevole del suo ruolo di consorte di un membro del Consiglio del Congresso. Un rapido sguardo le bastò per capire che suo marito era teso come una corda di violino. Sfiorò un pulsante del Cuocitutto e gli mise premurosamente davanti una tazza di caffè. Poi, mentre lui sorseggiava la bevanda calda, sfiorò un'altro tasto e, quando le uova aromatizzate alla cipolla furono pronte, le condì con la salsa di maiale che a lui piaceva tanto. Lo fece di persona, perché non si fidava della macchina. Mentre si affaccendava, commentava le notizie apparse sul giornale del mattino. Wilburn in parte l'ascoltava, in parte le sorrideva e mugugnava qualche risposta, e in parte fissava il vuoto. Quando ebbe terminato la colazione, la salutò con un bacio e uscì.

Salì su una banchina scorrevole e si lasciò investire dall'aria dolce della Sicilia. Ma, dopo pochi minuti, quell'immobilità lo innervosì. Allora smontò e proseguì a piedi, distendendo bene le gambe a ogni passo: sentire i muscoli che lavoravano gli procurava un'intima soddisfazione. In lontananza, si profilava la cupola del palazzo del Consiglio e quella vista gli fece ritornare in mente il problema all'origine della sua tensione. Ma, per quanto ci pensasse, non c'era nulla che potesse fare per risolverlo. Così si ripromise di stare all'erta, per cogliere l'occasione propizia non appena gli si fosse presentata.

Wilburn salì di nuovo sulla banchina scorrevole e si diresse verso il palazzo del Consiglio.

Entrò nel Palazzo Grande dalla scala nord e si avviò lungo il corridoio orientale per prendere le scale che conducevano al suo ufficio. Una guida in uniforme stava illustrando le meraviglie dell'edificio a un gruppo di visitatori. Quando riconobbe Wilburn, sospese la spiegazione e disse: — Il signore che vedete arrivare alla vostra sinistra è il Consigliere Wilburn, rappresentante di uno dei Distretti orientali degli Stati Uniti. Tutti voi ne avrete certamente sentito parlare. Per oggi è prevista la votazione sulla riduzione delle precipitazioni sul nord dell'Australia e il risultato dipende in larga misura dalla posizione che assumerà il Consigliere Wilburn nel corso del dibattito.

I visitatori si fermarono di colpo alla vista inaspettata di una tale celebrità, andando a sbattere gli uni contro gli altri. Wilburn sorrise e accennò un saluto con la mano, confondendoli ancora di più. Ma non si fermò a parlare. Da un gesto della guida aveva appurato che fra di loro non c'era nessun elettore della sua circoscrizione; in caso contrario, la guida avrebbe provveduto ad avvertirlo, in modo da permettergli di comportarsi di conseguenza. Wilburn sorrise fra sé e sé: un membro eletto godeva di molti vantaggi rispetto a un semplice candidato alla carica.

Wilburn svoltò in direzione delle scale, che salì rapidamente, insieme al Consigliere Georges DuBois, dell'Europa centrale. — L'ho sentito — stava dicendo DuBois. — Hai già deciso come votare sulla questione australiana?

— Sarei propenso per un voto a favore, ma ancora non lo so. E tu?

DuBois scosse la testa. — Anch'io sono indeciso. È una faccenda molto delicata. È terribile far soffrire gli uomini e, ancor peggio, le donne e i bambini. Non lo so.

Salirono in silenzio fino in cima alla scala e un attimo prima di separarsi, Wilburn disse: — Mia moglie è sempre con me, qualunque cosa io faccia, George.

DuBois lo fissò pensosamente, poi replicò: — Sì, ho capito quello che intendi dire. Le donne australiane sono colpevoli quanto gli uomini e quindi meritano la stessa punizione. Sì, questa considerazione mi sarà d'aiuto in caso decidessi di votare a favore. Ci vediamo in Consiglio. — Si salutarono con un cenno del capo, un gesto muto che esprimeva rispetto e intesa. DuBois era uno dei più solleciti membri del Consiglio e, molto più di altri, era conscio delle gravose responsabilità di cui era investito l'organo politico del Congresso Meteorologico.

 

Wilburn entrò nel suo ufficio e salutò i suoi collaboratori con un rapido movimento della testa. Poi si diresse verso il suo studio privato e, subito dopo aver preso posto alla scrivania, pose mano alle incombenze più urgenti. La piccola pila di fogli che lo attendeva al centro del tavolo si dissolse rapidamente: una dopo l'altra, Wilburn esaminò le pratiche, dettando le disposizione relative a ciascuna di essa, e le accatastò sopra un'altra pila di carte.

Stava per finire quando, attraverso l'interfono, una voce gentile di uomo disse: — Hai tempo per vedere un amico?

Wilburn sorrise e si alzò per andare ad aprire la porta al Consigliere Gardner Tongareva. I due uomini si sorrisero e si strinsero la mano. Tongareva si accomodò in una delle confortevoli poltrone dello studio di Wilburn. Era un uomo di pelle gialla, un polinesiano pieno di rughe, di anni e di buon senso. Indossava un paio di pantaloni larghi e corti, che ricordavano il sarong dei suoi antenati. Aveva i capelli bianchi e il suo viso esprimeva affabilità e calore. Tongareva era una di quelle rare persone capaci, con la sua sola presenza, di far affiorare il sorriso sulle labbra dei suoi compagni e di infondere pace nei loro cuori. La sua influenza all'interno del Consiglio era enorme, ed era frutto esclusivamente della sua personalità.

Il suo distretto, compreso fra il 15° e il 30° grado di latitudine nord, e fra il 150° e il 165° grado di longitudine est aveva la stessa estensione di quelli di tutti gli altri membri del Consiglio, ma la superficie della terraferma era assai esigua: soltanto due chilometri quadrati, quelli corrispondenti al territorio della Marcus Island, sulla quale vivevano esattamente quattro persone. Questo dato contrastava profondamente con i cento milioni di abitanti che popolavano, per esempio, il distretto di Wilburn, compreso fra i 30 e 45 gradi di latitudine nord e i 75 e 90 gradi di longitudine ovest. Eppure, a ogni elezione, la ripartizione dei voti fra i duecento Consiglieri testimoniava i grandi consensi che Tongareva riscuoteva in tutto il mondo.

Wilburn si accomodò di fronte al collega e disse: — Hai preso una decisione riguardo alla questione australiana?

Tongareva annuì. — Sì. Credo che non ci resti altra scelta che condannare gli australiani a un anno di siccità. I bambini cattivi vanno sculacciati e da due anni gli australiani accusano un deficit della bilancia commerciale. Il punto è che questo loro comportamento rappresenta una sfida all'autorità suprema del Congresso Meteorologico. Gli abitanti del Queensland e del Territorio del Nord sono gente ostinata. Non credono che noi abbiamo davvero i mezzi e la volontà di punirli mutando le condizioni climatiche della regione a loro svantaggio. Devono essere puniti immediatamente, prima che in altre regioni del mondo altri seguano il loro esempio. Per ora un anno di siccità, quanto basta per ridurre in modo significativo il loro livello di prosperità, dovrebbe essere sufficiente. Più avanti potrebbe essere necessario farli soffrire e nessuno di noi lo desidera. Sì, Jonathan, io voterò per la siccità in Australia.

Wilburn annuì con espressione grave. A quel punto intuì che quasi sicuramente la decisione del Consiglio sarebbe stata favorevole alla punizione. La maggior parte dei Consiglieri ne avvertiva la necessità, ma al tempo stesso era contraria a recare sofferenze alla popolazione; nondimeno, non appena Tongareva avesse espresso la sua opinione, come aveva appena fatto con lui, i Consiglieri avrebbero messo da parte ogni remora. Wilburn disse: — Sono d'accordo con te, Gardner. Hai espresso a parole quello che la maggior parte di noi pensa su questa faccenda. Voterò come te.

Tongareva non fece commenti, ma continuò a fissarlo con sguardo acuto. Non era uno sguardo imbarazzante. Tongareva non faceva o diceva mai niente di imbarazzante. Poi osservò: — Sei un uomo diverso, questa mattina, mio buon amico. Per la verità, ho cominciato ad accorgermi che qualcosa stava cambiando in te tre settimane fa. Qualunque fosse il problema che ti assillava, lo hai risolto e io me ne compiaccio. No — aggiunse, alzando una mano per zittire Wilburn, che stava per replicare — non è necessario che me ne parli. Quando avrai bisogno di me, io sarò pronto ad aiutarti. — Si alzò. — Devo andare a discutere della questione australiana con altri Consiglieri. — Tongareva sorrise e, prima che Wilburn potesse dire qualcosa, uscì.

Wilburn rimase immobile a fissarlo. Era ammirato dalla sua straordinaria abilità nell'intuire quello che stava accadendo dentro di lui. Scuotendo la testa, rivolse di nuovo la mente agli impegni della giornata e si affacciò sulla sala d'aspetto per parlare alla decina di persone che lo attendevano.

— Mi dispiace di avervi fatto aspettare — disse Wilburn — ma c'è grande agitazione questa mattina in Consiglio e immagino che voi ne sappiate la ragione. Perciò, perdonatemi se non ho potuto dare udienza privatamente a ciascuno di voi, ma fra pochi minuti saremo tutti convocati in aula per una riunione. Comunque, non volevo perdere l'opportunità di vedervi tutti almeno per un minuto o due. Forse potremmo incontrarci di nuovo questo pomeriggio o domani mattina.

Detto questo, Wilburn fece il giro della sala stringendo la mano a ciascun visitatore e cercando di memorizzarne il nome. Due di loro non erano cittadini del suo distretto, ma esponenti della lobby dei distretti australiani e si lanciarono in una lunga invettiva contro i provvedimenti punitivi che il Consiglio si apprestava a discutere.

Ma Wilburn alzò la mano e disse: — Signori, non è questa la sede per discutere di questo argomento. Ascolterò le argomentazioni favorevoli o contrarie a un eventuale provvedimento punitivo contro i Distretti australiani nel corso del dibattito. Questo è tutto. — Sorridendo, si avviò verso l'uscita. Ma mentre passava, il più giovane dei due lobbisti lo afferrò per un braccio, costringendolo a voltarsi, e urlò: — Ma signor Consigliere lei deve ascoltarci! Milioni di persone soffriranno per colpa delle decisione prese dai loro governanti. Voi non potete...

Con uno strattone, Wilburn si liberò dalla presa, poi si diresse rapidamente verso il muro e premette un pulsante. Il lobbista impallidì e disse: — Ma signor Consigliere io non intendevo farle alcun male. La prego, non inoltri una protesta contro di me. Per favore...

In quel momento due uomini che indossavano l'uniforme del Congresso Meteorologico spalancarono la porta ed entrarono nell'ufficio. Wilburn, il volto impassibile, parlò con voce pacata, ma i suoi occhi brillavano come cristalli di ghiaccio. Indicando il suo aggressore, disse alle guardie: — Quell'uomo mi ha afferrato per un braccio nel tentativo di costringermi ad ascoltare le sue ragioni su argomenti che verranno discussi in Consiglio. Intendo presentare protesta formale contro di lui.

Accadde tutto così rapidamente, che gli altri visitatori non ebbero il tempo di rendersi conto esattamente di che cosa fosse successo. Ma era tutto registrato su nastro e Wilburn sapeva che il giovane non avrebbe mai più messo piede nelle sale del Congresso Meteorologico. Le due guardie gli fecero segno di seguirle fuori dall'ufficio. L'altro lobbista disse: — Mi dispiace, signor Consigliere. Mi sento responsabile per il suo comportamento: è nuovo del mestiere.

Wilburn annuì e fece per parlare, ma un sommesso rintocco musicale suonò ripetutamente nella stanza. — Vi prego di scusarmi, ma devo andare in aula — disse. — Se volete potete assistere al dibattito dall'auditorium riservato al pubblico. Vi ringrazio per essere venuti a trovarmi e spero di potervi ricevere in un'altra occasione. — Dopodiché, sorridendo e accennando un saluto con la mano, si ritirò nel suo studio.

Interrogò frettolosamente i suoi collaboratori per verificare se fossero preparati ad affrontare i problemi sul tappeto quel giorno. Erano tutti pronti e sapevano quale posizione assumere durante il dibattito. Wilburn prese il tapis roulant che conduceva all'Aula, ma decise di percorrere gli ultimi cento metri a piedi nel corridoio pubblico, dove tutti potevano vederlo. Quando arrivò davanti alle porte principali dell'Aula, numerosi giornalisti gli chiesero il permesso di avvicinarsi, ma lui rifiutò: voleva raggiungere al più presto il suo seggio e mettersi al lavoro.

Oltrepassò le porte e attraversò l'atrio, poco profondo, ma ampio che conduceva all'Aula. Una volta emerso nella grande sala, imboccò il corridoio principale e si diresse verso il suo seggio. Nella camera erano già presenti alcuni Consiglieri che, quando il Segretario annunciò il suo ingresso, alzarono lo sguardo e lo salutarono. Wilburn rispose al loro saluto con un cenno della mano e proseguì verso il suo banco, uno di quelli di centro, riservato ai consiglieri anziani. Non appena ebbe preso posto, cominciò a premere i pulsanti e ad accendere gli interruttori sul pannello davanti a sé. Immediatamente si illuminò una spia: significava che uno dei suoi colleghi desiderava parlargli. Si trattava del Consigliere Hardy, rappresentante del distretto compreso tra i 165-180 gradi di longitudine ovest e i 30-45 gradi di latitudine sud, in cui rientrava gran parte del territorio della Nuova Zelanda. — Ciao, Jonathan. Hai già parlato con Tongareva? — domandò Hardy.

— Sì, George.

— Voterai come vuole lui?

— Penso di sì, anche se preferisco aspettare di sentire le obiezioni degli altri consiglieri prima di decidere. Tu che cosa pensi di fare?

Hardy tacque per alcuni istanti, poi disse: — Probabilmente voterò contro, a meno che qualcuno non esprima l'estrema riluttanza del Consiglio a votare a favore della siccità.

— Perché non lo fai tu, George?

— Forse lo farò. Grazie Jonathan. — Così dicendo, chiuse la comunicazione.

 

Wilburn percorse con lo sguardo la grande sala e, come sempre, provò una sensazione di riverente timore. Non si trattava soltanto dell'imponente schieramento dei duecento seggi, dello scranno del Presidente, dell'enorme carta del tempo, che indicava le condizioni meteorologiche che vigevano in quel momento sulle diverse regioni della Terra o delle grandi sale riservate alle telecomunicazioni: era l'atmosfera che si respirava nell'Aula, alla quale nessuno, uomo o donna, consigliere o semplice visitatore, restava indifferente. Era fra quelle mura che, da cinquant'anni, si decideva il destino della Terra. Era fra quelle mura che venivano promulgate le leggi che governavano il mondo.

Il Congresso Meteorologico era il supremo organismo politico del pianeta e, come tale, aveva il potere di piegare stati, nazioni, continenti e perfino emisferi al proprio volere. Quale dittatore, quale paese poteva sopravvivere quando sul suo territorio non cadeva una sola goccia d'acqua per un anno intero? Quale dittatore, quale paese poteva sopravvivere quando il suo territorio veniva sommerso da una coltre di due metri di neve e ghiaccio? Il Congresso Meteorologico poteva decidere di far gelare il fiume Congo o di prosciugare il Rio delle Amazzoni: oppure, di inondare il Sahara e la Terra del Fuoco. Poteva provocare il disgelo della tundra, l'innalzamento o la diminuzione del livello degli oceani a proprio piacere. E l'atmosfera che si respirava in quell'Aula, dove venivano prese le decisioni politiche, era impregnata del potere che i suoi membri avevano esercitato negli ultimi cinquant'anni, dalle prime, burrascose sedute, alle assemblee più tranquille ed equilibrate del presente.

Un gran numero di Consiglieri aveva già preso posto.

Suonò un altro rintocco e il Segretario cominciò a leggere l'ordine del giorno, enunciando le mozioni e le richieste di natura meteorologica che sarebbero state oggetto di dibattimento. La sua voce perveniva a ciascun seggio attraverso un minuscolo microfono. Contemporaneamente, mozioni e richieste venivano visualizzate in sintesi sulla grande carta del tempo. In questo modo, ciascun Consigliere poteva seguire i lavori dell'assemblea e, contemporaneamente, attendere ad altre incombenze.

La prima richiesta, come sempre, era quella avanzata dagli Amanti della Umile Pianta del Cactus, che chiedevano una diminuzione delle precipitazioni e un'aumento della desolazione nella Valle della Morte, per preservare il Cactus dall'estinzione.

Wilburn chiamò Tongareva e disse: — A quanti Consiglieri hai parlato, Gardner?

— A una quarantina, Jonathan. Ne ho incontrato un gruppetto consistente che stava bevendo il caffè.

— Hai parlato a Maitland?

Seguì una breve pausa. Maitland assumeva sempre una posizione contraria a quella di Wilburn, indipendentemente dalla natura della questione in discussione. Il suo Distretto, racchiuso fra i 60 e i 75 gradi di longitudine ovest e i 30 e i 45 gradi di latitudine nord, confinava con quello di Wilburn e comprendeva New York e Boston. Maitland non perdeva occasione per far capire a tutti che non considerava Wilburn all'altezza della posizione di potere e di influenza che deteneva in seno al Consiglio. — No — disse Tongareva, e Wilburn immaginò che stesse scuotendo la grande testa. — No, con Maitland non ho parlato.

Wilburn chiuse la comunicazione e si concentrò su quello che stava accadendo in aula. Il presidente della Bolivia si lamentava per il clima un po' troppo freddo, per i suoi gusti, che regnava nella regione di Cochabamba. Il sindaco di Avigat, in Groenlandia, comunicava che quell'anno la produzione di granoturco era diminuita del dieci per cento, a causa del consistente incremento delle piogge e delle frequenti condizioni di cielo coperto. Wilburn annuì; il sindaco di Avigat era un uomo da tenere in seria considerazione. Quindi premette il pulsante contraddistinto dalla targhetta "a favore" per assicurarsi che il Consiglio prendesse in esame la questione.

Il suo telefono squillò. Era un cittadino della sua circoscrizione elettorale, che lo invitava a presenziare alla riunione annuale del Rotary Club, il 27 ottobre successivo. Dopo pochi istanti, sul pannello si accese una luce bianca: significava che, dopo aver esaminato l'agenda dei suoi impegni, la sua segreteria gli comunicava che per quella data era libero. — Con piacere — rispose Wilburn, accettando l'invito. — La ringrazio per l'occasione che mi offre di parlare al vostro gruppo. — Non appariva in pubblico in quella regione da un anno e capiva di dover cogliere al balzo quell'occasione. Anzi, era probabile che fossero stati i suoi stessi collaboratori a organizzare, a sua insaputa, quell'invito.

Un contadino della regione libica di Gatrun chiedeva che al suo vicino fossero ridotte le forniture d'acqua, per pareggiare il rendimento dei rispettivi raccolti.

Fu nominata una commissione di cinque consiglieri, alla quale fu affidato il compito di stilare l'ordine di intervento dei membri del Consiglio segnati a parlare sulla questione australiana. Nel frattempo, Wilburn prese nota della richiesta di Ceylon di convertire le piantagioni di riso delle regioni interne in coltivazioni di grano, che implicava una diminuzione della piovosità e della temperatura media su quella parte dell'isola. Wilburn premette il pulsante "a favore".

Fu deciso che sarebbe stato George DuBois, rappresentante dell'Europa Centrale a introdurre, con studiata riluttanza, la risoluzione sulla siccità in Australia.

Il Presidente del Consiglio continuò a snocciolare l'elenco delle richieste. Un certo George Andrews di Holtville, California, gravemente ammalato, esprimeva il desiderio di vedere la neve ancora una volta, prima di morire. E, poiché non poteva lasciare il clima semi-tropicale della sua città, chiedeva al Consiglio di provocare una precipitazione nevosa in California, nonostante fosse luglio.

Tongareva avrebbe appoggiato la risoluzione formulata da DuBois; dopo di lui sarebbero intervenuti i Consiglieri dei Distretti australiani, contrari al severo provvedimento punitivo e, al termine del dibattito, ognuno avrebbe suonato a orecchio.

 

La città portuale di Stoccolma chiedeva un ulteriore innalzamento del livello del Mar Baltico di quindici centimetri. Kodbo, in Mongolia, protestava per le grandi valanghe causate dalle eccessive nevicate. E fu allora che Wilburn si sentì rizzare i capelli sulla nuca.

Si irrigidì e si guardò attorno per individuare la causa di quella strana sensazione. Nell'aula ferveva l'attività, ma era normale. Si alzò in piedi, ma non vide nient'altro. Notò soltanto che Tongareva lo stava guardando. Scrollò le spalle, si risedette e fissò il baillame di luci sul pannello davanti a sé. All'improvviso si sentì formicolare la pelle e una scarica di adrenalina gli percorse le vene, inducendogli una sensazione di irrefrenabile allegria. Che cosa gli stava succedendo? Serrò le mani attorno ai braccioli del seggio, chiuse gli occhi e si sforzò di pensare. Si isolò mentalmente dall'ambiente che lo circondava, si rilassò e cercò di concentrarsi sulla possibile causa di quello stimolo. Il problema australiano? No, non era quello. Era qualcosa... qualcosa che aveva a che fare con una delle richieste meteorologiche avanzate al Consiglio. Wilburn riaprì gli occhi e premette il bottone di riavvolgimento per riesaminare l'elenco delle petizioni.

Una dopo l'altra, le richieste apparvero in sintesi sullo schermo miniaturizzato al centro del pannello. Valanghe, il livello del Mar Baltico, la neve nella California meridionale, il grano al posto del riso nell'isola di Ceylon, il contadino libico... un momento... ritornò indietro e rilesse la petizione molto lentamente.

Il signor George Andrews di Hotville, California, prossimo alla morte, chiedeva di poter vedere per l'ultima volta la neve, pur non essendo in grado di lasciare l'ambiente semi-tropicale della California meridionale. Più Wilburn rileggeva quelle parole e più si convinceva di aver trovato ciò di cui aveva bisogno. Quella richiesta aveva un richiamo universale: l'ultimo desiderio di un uomo che stava per morire. Non sarebbe stato facile: la neve, in luglio, in California meridionale era una cosa inaudita; non era nemmeno sicuro che fosse possibile. Ma più Wilburn rifletteva e più si persuadeva che quella era la causa giusta su cui rischiare la sua carriera. Se fosse riuscito nel suo intento avrebbe conquistato gli uomini e le donne di tutto il mondo. Ricordava come fosse abitudine dei presidenti americani mostrare di tanto in tanto interesse per qualche persona poco importante. Certo, se falliva, la sua carriera politica sarebbe stata irrimediabilmente compromessa, ma era un rischio che valeva la pena di correre. E poi il nome di George Andrews gli evocava qualcosa, un ricordo vago sepolto nella sua memoria. Era una sensazione confusa, ma non importava. Era ora che chiamasse a raccolta tutte le forze di cui disponeva.

Interruppe ogni collegamento con l'Aula e con i colleghi Consiglieri e si mise in contatto con il suo staff. — Sto prendendo in esame l'ipotesi di appoggiare la richiesta di George Andrews — annunciò. Poi fece una breve pausa, sorridendo fra sé al pensiero delle facce incredule e scioccate dei suoi collaboratori, che non lo avevano mai sentito esprimere un'idea così stravagante. — Raccogliete tutte le informazioni possibili sul conto di questo Andrews. Assicuratevi che la sua richiesta sia autentica e che non si tratti di qualche trappola per incastrare un Consigliere onesto come me. In particolare, accertatevi che non esistano legami di alcun genere fra lui e il Consigliere Maitland. Chiedete al Consulente Greenberg quante e quali probabilità ci siano di far cadere la neve in luglio in un'area estremamente circoscritta della California meridionale. In base alla sua risposta, contattate Hechmer, all'Ufficio Meteorologico e valutate insieme a lui le possibilità di attuazione pratica del progetto. Voglio una risposta entro... scusate un attimo — Wilburn si guardò attorno. L'enunciazione delle petizioni era terminata e il Consigliere Yardley aveva lasciato il suo seggio e si stava dirigendo verso il centro dell'Aula per assumere la carica di Presidente. — Avete quattro ore di tempo per reperire tutte le informazioni che vi ho chiesto. Buona fortuna. Questa volta ne avremo davvero bisogno. — Dopo aver chiuso la comunicazione, Wilburn si abbandonò contro lo schienale. Ma non aveva tempo per rilassarsi.

Nei pochi minuti in cui si era isolato per avviare l'indagine, si erano accumulate svariate chiamate. Wilburn si accinse a rispondere alle prime, mentre, dalla sua poltrona, il Presidente Yardley richiamava l'assemblea all'ordine e, dopo aver rapidamente accantonato vecchie questioni, introduceva la mozione sulla siccità in Australia. Wilburn continuò a rispondere alle telefonate dei suoi colleghi, tendendo contemporaneamente l'orecchio a quanto accadeva nella Camera. Il Presidente lesse l'ordine degli interventi a favore e contro la risoluzione in oggetto e i membri del Consiglio si apprestarono a seguire il dibattito. Il Consigliere DuBois fece alcune osservazioni introduttive, esprimendo profondo rammarico per il fatto che il Consiglio avesse ritenuto necessario adottare quella linea di condotta per riaffermare l'autorità del Congresso Meteorologico. Era un bel discorso, pensò Wilburn. Nessuno avrebbe potuto dubitare della sincerità di DuBois, soprattutto dopo averlo sentito enunciare solennemente la risoluzione, con gli occhi pieni di lacrime e la voce incrinata. Poi toccò al primo dei Consiglieri dell'Australia prendere la parola.

 

Wilburn infilò in tasca il ricevitore portatile, pigiò il bottone che indicava che stava seguendo il dibattito a distanza e lasciò l'Aula. Molti altri Consiglieri lo imitarono; i più erano diretti al Ristorante del Consiglio, dove potevano bere una tazza di tè senza essere infastiditi da elettori in cerca di favori, giornalisti, lobbisti e così via. I Consiglieri bevevano, mangiavano paste e parlavano. La conversazione verteva sulla votazione che si sarebbe tenuta poco dopo ed era facile capire che la maggioranza era favorevole alla risoluzione. I Consiglieri parlavano a bassa voce, in modo da seguire il discorso del collega australiano che perorava la causa del distretto incriminato; ciascun consigliere aveva con sé il ricevitore e sentiva per via intraossea, attraverso un piccolo microfono applicato dietro l'orecchio. Quando fu chiaro che il Consigliere australiano si limitava ad aggrapparsi alle solite, vecchie argomentazioni: "Non fate soffrire milioni di innocenti e concedeteci una prova d'appello" il brusio aumentò. L'esito dello scrutinio era ormai cosa certa.

Wilburn fece ritorno in aula e sbrigò parte del lavoro pendente di quella mattina. Poi uscì a prendere un altro caffè e ritornò di nuovo al suo posto. Quando venne il suo turno, si alzò per tenere un breve discorso a favore della risoluzione, che concluse esprimendo il proprio rincrescimento per quella che definì una "dolorosa necessità." Poi, mentre il dibattito sulla questione australiana si avviava alla conclusione, cominciò a ricevere le prime informazioni su George Andrews.

George Andrews era un signore californiano di centoventisei anni, affetto da una grave malattia cardiaca, a causa della quale i medici gli avevano pronosticato soltanto sei settimane di vita. Apparentemente non c'era nessun legame fra Andrews e il Consigliere Maitland. — Chi l'ha verificato? — domandò Wilburn, interrompendo il suo collaboratore.

— Jack Parker — fu la risposta, seguita da un accenno di risata prontamente soffocata, di cui Wilburn decise di non tenere conto. Jack Parker era una delle persone più acute e affidabili per svolgere indagini di quel genere e il membro del suo staff che aveva avuto la brillante idea di affidargli quell'incarico si meritava una gratifica. Per lo meno, adesso Wilburn poteva prendere una decisione senza temere di cadere in qualche trappola politica. Ma il rapporto su Andrews non era terminato.

— Come immagino lei sappia, un secolo fa Andrews fu sul punto di diventare uno degli uomini più famosi del mondo. Per un certo periodo sembra che fosse stato riconosciuto a lui il merito di aver inventato le barche sessili, ma alla fine la paternità dell'invenzione fu attribuita a Hans Daggensnurf. Alcuni, però, continuano a sostenere che il vero inventore fosse Andrews, che poi fu vittima di politiche sporche, di avvocati scaltri e di persone senza scrupoli e avide di denaro. In ogni caso, il nome "barche sessili", espressione coniata da Andrews per indicare le barche del Sole, è rimasta in uso. Del resto, nessuno avrebbe mai potuto chiamarle barche di Daggensnurf.

Adesso Wilburn ricordava; era stupito che il suo subconscio lo avesse sollecitato a controllare quel nome. Andrews era stato il George Seldon dell'industria automobilistica, il William Kelly del cosiddetto processo dell'acciaio Bessemer. Erano tutti uomini dimenticati: era stato qualcun altro a conquistare, al posto loro, l'alloro dell'immortalità. Nel caso di George Andrews, si sosteneva che fosse lui il vero artefice delle barche del sole, quei prodigiosi congegni che rendevano possibile l'esistenza del Congresso Meteorologico. Scivolando su una sottile pellicola di carbonio gassoso, le barche sessili attraversavano senza rischi l'infernale superficie del Sole, spostandosi da un punto all'altro per stimolare l'attività necessaria a produrre la condizione meteorologica desiderata. Senza le barche sessili non sarebbe esistito nessun Ufficio Meteorologico, che attraverso i suoi addetti, uomini magri dallo sguardo duro, aveva il compito di manipolare il Sole per ottenere i risultati richiesti dal Consiglio Meteorologico. Sì, Wilburn era stato proprio fortunato a riesumare quel brandello di storia antica proprio nel momento in cui ne aveva bisogno.

Il rapporto su Andrews continuava come segue: — Abbiamo chiesto il parere del Comitato Meteorologico, in particolare di Bob Greenberg. Greenberg ritiene che ci siano buone probabilità di riuscire a provocare una precipitazione nevosa sulla California meridionale in questo periodo dell'anno, ma non è in grado di garantire nulla. Uno dei suoi collaboratori ha messo a punto una nuova teoria che potrebbe funzionare e la nostra richiesta potrebbe fornire il banco di prova per verificarne l'efficacia. Ma Greenberg ha detto che non vuole che venga fatto il suo nome. Sembra che abbia qualche problema con il genio che si occuperebbe della faccenda se la nostra richiesta fosse ufficiale. A quanto ho capito, preferirebbe che noi facessimo approvare la nostra proposta in modo da permettergli di sistemare le cose con questa specie di genio.

— E dall'Ufficio che notizie mi portate? — domandò Wilburn.

— Abbiamo parlato con Hechmer come lei ci aveva suggerito. È lui di turno sul Sole in questo periodo, per cui è nelle condizioni migliori per valutare la nostra richiesta. Sostiene che in tutto l'Ufficio c'è un solo Maestro di Barca dotato di una buona dose di fegato e di fantasia, ma in questo periodo ha problemi familiari. In ogni caso, Hechmer ha detto che se gli proponiamo qualcosa di veramente speciale, troverà il sistema per far spremere le meningi al suo uomo.

Wilburn finì di ascoltare il rapporto stilato dal suo staff. Il suo più vicino collaboratore lo aveva completato facendo condurre, di propria iniziativa e con la massima discrezione, un sondaggio d'opinione, per verificare come avrebbero reagito gli elettori della circoscrizione del Consigliere, nel caso Wilburn avesse deciso di appoggiare la richiesta di Andrews. Era stata un'idea molto brillante, pensò Wilburn, che spiegava perché il suo assistente ricevesse ogni mese uno stipendio così alto. I risultati del sondaggio rispecchiavano le previsioni: se la richiesta di Andrews fosse stata accolta rapidamente e senza problemi dal Consiglio e si fosse verificata la precipitazione nevosa, Wilburn si sarebbe conquistato la fama di uomo saggio, umano e generoso. Se, invece, il dibattito avesse dato origine ad acrimonia fra i Consiglieri o se fosse fallito il tentativo di far cadere la neve, l'opinione pubblica avrebbe giudicato l'iniziativa di Wilburn un brutto passo falso.

Il rapporto era finito. Wilburn sgombrò il tavolo e lanciò una rapida occhiata all'Aula. Il dibattito era giunto alle ultime battute. I Consiglieri erano impazienti di votare e ormai era chiaro che la maggioranza si sarebbe espressa a favore della risoluzione sulla siccità in Australia. Wilburn si appoggiò allo schienale per riflettere.

Ma non ne aveva bisogno perché conosceva già la risposta. Non c'era niente da decidere, perché aveva già deciso: l'avrebbe fatto. Il problema era: Come? E quando si domandò quale fosse il momento più favorevole per presentare la mozione, si rese conto che non avrebbe dovuto attendere molto. Quale occasione più propizia per avanzare una simile proposta se non subito dopo che il Consiglio aveva finito di esaminare un problema tanto spiacevole? Forse, la sua iniziativa sarebbe servita a sciacquar via dalla bocca dei Consiglieri il sapore amaro della pillola che avevano appena dovuto ingoiare. Ottima idea. Wilburn si rilassò e attese che il Presidente invitasse i membri del Consiglio a votare. Lo scrutinio iniziò dopo dieci minuti.

Venti minuti più tardi era tutto finito. La risoluzione era stata approvata con centonovantadue voti a favore e otto contrari. Quando il Presidente sollevò il martelletto per aggiornare la seduta, Wilburn si alzò.

— Signor Presidente — esordì — abbiamo appena dovuto prendere una decisione necessaria, ma spiacevole. Adesso, invece, vorrei proporre al Consiglio di esprimersi su un'altra questione, che non riveste carattere di necessità, ma in compenso è assai piacevole. Con rispetto, mi permetto di richiamare l'attenzione degli onorevoli membri di questa assemblea sulla Richiesta Meteorologica Numero 18, inoltrata in data odierna.

Wilburn tacque, mentre i suoi colleghi, stupiti, premevano il pulsante del riavvolgimento per rileggere la richiesta di Andrews. Attese fino a quando vide i volti dei più che lo fissavano increduli. Quindi, riprese: — Ho appena detto che la decisione che vi chiedo di prendere non riveste carattere di necessità, ma quale dovere è più urgente per la nostra coscienza di veder trionfare la giustizia... — Dopodiché Wilburn perorò la sua causa a favore di Andrews. Ripercorse brevemente la storia della sua vita e del grande debito di riconoscenza che gli doveva l'umanità intera, debito che non era mai stato ripagato. Mentre parlava. Wilburn sorrideva fra sé al pensiero delle telefonate che in quel momento dovevano rincorrersi da un banco all'altro dell'Aula. — Ma che cosa è saltato in mente a Jonathan? — oppure — Wilburn è impazzito? — e ancora: — Bisogna stare attenti: Wilburn ha in mente qualcosa.

Wilburn spiegò quanto fosse difficile verificare la possibilità di esaudire una simile richiesta sul piano tecnico. Soltanto il Comitato Meteorologico sapeva che cosa sarebbero stati in grado di rispondere a quella domanda. E, anche in caso di risposta positiva, era possibile che l'Ufficio non fosse in grado di attuare materialmente il progetto. Ma quelle difficoltà non potevano dissuadere il Consiglio dall'esperire almeno un tentativo. Wilburn concluse il suo intervento con un appello appassionato affinché si compisse quell'atto di grazia, per dimostrare al mondo intero che il Consiglio era formato da uomini che non perdevano mai di vista l'individuo.

Quindi si sedette nel silenzio generale dell'aula. Dopo pochi istanti fu Tongareva ad alzarsi per appoggiare, con parole benevole e tono gentile, la sua proposta, sottolineandone la carica umana in un momento in cui molti forse pensavano che il Consiglio fosse troppo duro. Quando si sedette, fu Maitland a prendere la parola. Con grande sorpresa di Wilburn, anche il rappresentante del distretto confinante con il suo appoggiò la risoluzione. Ma, come Wilburn ebbe modo di appurare immediatamente, lo faceva soltanto perché prevedeva che sarebbe stato un fallimento. Doveva avere fegato Maitland per prendere una posizione simile. Non poteva sapere quali fossero le sue intenzioni, eppure non aveva esitazioni: confidava sulla propria valutazione negativa dell'impresa in cui lui si era imbarcato ed era pronto a trarre il massimo vantaggio dal suo errore.

Wilburn rispose alle chiamate di un nutrito numero Consiglieri ansiosi di sapere se desiderasse il loro appoggio. Alcuni erano suoi amici, altri erano colleghi in debito di un favore. A tutti Wilburn chiese pieno avallo sotto forma di un breve discorso a sostegno della sua proposta. Nei quaranta minuti successivi, numerosi Consiglieri si alzarono a turno per esprimere la propria simpatia per l'iniziativa di Wilburn. L'esito della votazione che seguì fu unanime, un evento raro nella storia del Consiglio. La questione della siccità in Australia passò in secondo piano, sia all'interno dell'Aula sia sui televisori di tutto il mondo. L'attenzione di tutti era adesso rivolta alla piccola città di Hotville, California.

Quando il Presidente aggiornò la seduta dell'assemblea, Wilburn si rese conto che ormai i giochi erano fatti. Il suo destino dipendeva da altre persone, adesso: lui aveva fatto la sua parte, e forse quella era stata la sua ultima occasione.

Ma se si vuole far carriera in politica, si deve rischiare.

 

Come sempre, Anna Brackney arrivò al Palazzo del Comitato Meteorologico con mezz'ora di anticipo. Salì lentamente gli ampi gradini della scalinata e, quando fu in cima, si voltò a guardare la città di Stoccolma. Era una bella città, solida sotto i pesanti tetti delle case, scintillante sotto i raggi del sole mattutino, silenziosa e tranquilla. Stoccolma era la città ideale per il lavoro che svolgevano i Consulenti e, per l'ennesima volta, Anna si domandò come avessero fatto gli uomini a sceglierla. Si voltò ed entrò nel palazzo.

Il Supervisore della Manutenzione, Hjalmar Froding, stava guidando la Macchina Lucidatrice nell'atrio. Non appena vide Anna Brackney, ordinò alla Macchina di tracciare sul pavimento lo schema del gioco del tris con la cera, poi le fece un inchino. La scienziata si fermò, si portò un dito alle labbra e poi indicò il quadrato superiore destro. La Macchina tracciò uno "0", poi segnò una "X" nel riquadro centrale per Froding. Il gioco proseguì fino a quando Froding posizionò tre "X" in fila e la Macchina, con fare trionfante, vi tracciò sopra una riga. Allora l'uomo si inchinò ad Anna Brackney che, dopo essersi inchinata a sua volta, proseguì per la sua strada. Non prese la scala mobile, ma salì a piedi, soddisfatta di essere riuscita di nuovo a far vincere Froding senza che lui se ne accorgesse. Anna Brackney gli era molto affezionata; il Supervisore della Manutenzione parlava e sorrideva di rado, ma la trattava come se fosse la regina di Svezia. Era un vero peccato che non fosse possibile gestire con altrettanta facilità alcuni altri uomini del Palazzo.

Per raggiungere il suo ufficio, Anna doveva attraversare la Sala del Tempo. Il centro della stanza era occupato da un grande mappamondo sul quale erano visualizzate le condizioni climatiche presenti in quel momento in ogni parte della Terra. Il mappamondo era simile alla Carta del Tempo appesa nella sala del Consiglio Meteorologico, ma forniva informazioni più dettagliate. Su di esso apparivano le scie degli aerei, le variazioni di intensità e le inversioni del gradiente termico dell'atmosfera, i fronti, le linee isobare, illosobare, isoterme, le aree di precipitazione, le aree nuvolose e le masse d'aria. Il mappamondo era una massa di colori mutevoli, indecifrabile per un occhio inesperto, ma priva di segreti per i matemeteorologi che formavano lo staff tecnico del Comitato. Le pareti curve della stanza erano tappezzate di strumenti che, nel loro insieme, costituivano la Rete Meteorologica, i "sensi", per così dire, dei Consulenti. Tra il mappamondo in costante ebollizione, le luci che danzavano sulle pareti e i diagrammi che luccicavano, la sala sembrava lo scenario di un incubo. Ma Anna la attraversò con l'indifferenza di chi lo fa abitualmente. Si avviò verso la Sala delle Comunicazioni, per vedere se dal Consiglio Meteorologico fosse già pervenuta quella strana richiesta.

La guardia di piantone all'ingresso scattò sull'attenti, poi si fece di lato per lasciarla passare. Anna entrò nella Sala, si sedette e diede una rapida scorsa ai messaggi giunti nel corso della notte. Prese quello relativo all'imposizione della siccità nell'Australia del nord e lo lesse. Alla fine sbuffò e, commentando ad alta voce, disse: — Nessun problema. Anche un bambino saprebbe farlo. — E proseguì lo spoglio dei comunicati.

Quando trovò il messaggio che cercava, lo lesse attentamente, poi lo rilesse una seconda volta. Era proprio come aveva riportato il notiziario flash: "Neve a luglio su un'area di due chilometri quadrati della California meridionale". Di seguito, venivano specificate le coordinate di longitudine e latitudine e nient'altro. Ma Anna Brackney si sentì pervadere da una crescente eccitazione. Quella richiesta rappresentava la prima grande sfida per i Consulenti dopo decenni di lavoro routinario, una sfida che probabilmente non sarebbe stato possibile affrontare con le tecniche standard. Si mise un dito in bocca. Era l'occasione che aspettava: l'occasione per dimostrare la sua teoria. Non le restava altro da fare che convincere Greenberg ad affidarle quell'incarico. Risistemò la pila delle richieste e si diresse al suo ufficio.

Era un ufficio piccolo, non superava i dieci metri quadrati di superficie, ma per lei era ancora troppo grande. Così aveva sistemato la scrivania in un angolo, di fronte a una delle pareti, in modo da aver l'illusione che il locale fosse più angusto. Non sopportava gli spazi aperti quando lavorava. La stanza non aveva finestre, non c'erano quadri alle pareti né altre suppellettili che potessero distrarla. I suoi colleghi Consulenti avevano una concezione diversa dell'ambiente di lavoro ideale. Alcuni prediligevano le macchie di colore, altri avevano come sfondo gigantografie di paesaggi montani o marini: Greenberg aveva ricoperto le pareti con lo schema di un labirinto in bianco e nero e Hiromaka aveva tappezzato il suo ufficio di nudi. Anna rabbrividiva disgustata al solo pensiero.

Anziché sedersi alla scrivania, si fermò in piedi al centro della piccola stanza, e si domandò in che modo avrebbe potuto persuadere Greenberg ad affidarle il caso Andrews. Non era una cosa facile. Sapeva di non piacergli, per il semplice fatto che lui era un uomo e lei una donna. Lei non piaceva a nessuno dei suoi colleghi maschi e, di conseguenza, il suo lavoro non aveva mai ricevuto il riconoscimento che meritava. In un mondo di uomini una donna non veniva mai giudicata soltanto sulla base del suo lavoro. Ma se solo fosse riuscita a farsi affidare la pratica Andrews, gliel'avrebbe fatta vedere lei. A tutti quanti.

Ma il tempo stringeva. Il caso Andrews richiedeva una soluzione immediata. A volte i Consulenti elaboravano progetti per la cui realizzazione erano necessarie intere settimane. Il caso Andrews, invece, doveva essere studiato e risolto subito, per verificare se il tempo a disposizione era sufficiente. Anna girò sui tacchi, si precipitò fuori dal suo ufficio e scese giù nell'atrio. Non voleva perdere tempo. Avrebbe parlato a Greenberg non appena metteva piede nel palazzo.

Attese dieci minuti, finché, in anticipo rispetto al resto dello staff, lo vide salire i gradini della grande scalinata. Lo attese al portone di ingresso. — Dr. Greenberg — esordì senza preamboli — sono pronta a mettermi subito a lavorare sul caso Andrews. Credo...

— Mi stava aspettando? — domandò l'altro.

— Credo di essere la persona più adatta a risolvere il problema Andrews, perché richiede un approccio nuovo e...

— Che cosa diavolo sarebbe questo problema Andrews?

Lei lo fissò senza capire, poi balbettò: — È... è il caso arrivato questa notte e voglio essere io quella che...

— Lei mi blocca qui, sulle scale, senza nemmeno lasciarmi entrare e pretenderebbe che io sapessi quali richieste ci sono pervenute durante la notte? Se non sono ancora salito di sopra!

— Ma non può non saperlo... è su tutti i giornali e ne hanno parlato in tutti i notiziari.

— Se è per questo, dicono anche un sacco di cose su quello che facciamo qui e il più delle volte o sono fesserie o non c'entrano niente. E adesso, perché non aspetta che dia un"occhiata ai comunicati in modo che possa capire anch'io di che cosa sta parlando?

Salirono insieme con la scala mobile, senza parlare, lui seccato per il fatto di essere stato aggredito in quel modo, lei altrettanto seccata per gli evidenti tentativi del suo capo di impedirle di fare quello che voleva.

Greenberg si avviò verso il suo ufficio, ma lei lo prevenne: — È nella Sala delle Comunicazioni, non nel suo ufficio.

Lui fece per replicare, poi si trattenne e la precedette all'interno della stanza. Quando ebbe letto la richiesta, Anna gli domandò: — Allora, posso occuparmene io?

— Mi stia a sentire, maledizione! Questa richiesta seguirà l'iter di tutte le altre che vengono inoltrate al nostro ufficio, almeno fino a quando non ne avremo valutato tutte le possibili implicazioni. Perciò la passerò a Upton per un esame preliminare e lui mi consiglierà la persona a cui affidarla. Una volta sentito il suo parere, deciderò il da farsi. Quindi, non mi secchi più fino a quando non avrò parlato con Upton. — Vide le labbra di Anna piegarsi all'ingiù e i suoi occhi riempirsi di lacrime. Non era la prima volta che assisteva a simili crisi di pianto e non gli piacevano affatto. — Ci vediamo — disse e si rintanò rapidamente nel suo ufficio, chiudendo la porta a chiave. Ecco una delle cose più belle del Palazzo del Comitato: una porta chiusa a chiave era inviolabile. Significava che una persona non voleva essere disturbata e l'importanza del lavoro che i Consulenti svolgevano era tale che quel desiderio veniva rispettato.

Anna Brackney ritornò come una furia nel suo ufficio. Sempre la stessa storia. Lì dentro, opportunità per una donna non ce ne erano: si rifiutavano di trattarla come un uomo. Pochi istanti dopo uscì e andò nell'ufficio di Upton per attenderlo al varco e spiegargli la questione.

Upton era un uomo corpulento, pacato, disponibile e dotato di un'intelligenza cristallina. Ma, soprattutto, sapeva come trattare le persone ostinate. Anna non era nemmeno arrivata a metà della sua geremiade che lui aveva già compreso che l'unico sistema per levarsela di torno era quello di esaminare subito la richiesta Andrews. Se la fece portare, la lesse e, lasciandosi sfuggire un fischio, si sedette di fronte a un computer venti-sei-cinquanta. Picchiettò per mezz'ora sulla tastiera, quindi attese che il calcolatore elaborasse i dati e gli fornisse una risposta. La mole del lavoro era tale che fu costretto a chiedere aiuto a tre colleghi, che si misero a lavorare ad altrettanti computer. Dopo tre ore, Upton si voltò verso Anna, che per tutto il tempo era rimasta in piedi alle sue spalle.

— Ha qualche idea su come affrontare questo caso? — le domandò.

Lei annuì.

— Le va di parlarmene?

La scienziata esitò, poi disse: — Be', non ne sono ancora del tutto sicura, ma penso che il problema si potrebbe risolvere con... — tacque e gli lanciò un'occhiata timorosa, come se stesse cercando di prevedere se le avrebbe riso in faccia oppure no. — ...un fronte verticale.

Upton spalancò la bocca. — Un fron... intende dire un vero fronte perpendicolare alla superficie della Terra?

Lei annuì e si mise un dito in bocca. Lungi dallo scoppiare a ridere, Upton fissò per alcuni istanti il pavimento, poi si alzò e si diresse verso l'ufficio di Greenberg. Entrò senza bussare e, tralasciando i convenevoli, disse: — Con le tecniche tradizionali abbiamo il quarantasei per cento delle probabilità di risolvere il caso Andrews. Ma che cosa è saltato in mente a quelli del Consiglio? È la prima volta che saltano fuori con una richiesta così idiota. Che cosa hanno intenzione di fare?

Greenberg scosse la testa. — Non lo so. Ho ricevuto una telefonata da Wilburn, che voleva alcune informazioni su questa faccenda. Ho la sgradevole sensazione che vogliano metterci alla prova per vedere quello che siamo in grado di fare. Una specie di test, per poi sottoporci un problema molto grosso. Ieri hanno approvato la risoluzione sulla siccità nell'Australia settentrionale; forse, hanno intenzione di dare una lezione a qualcun altro ma prima vogliono vedere di che cosa siamo capaci.

— La siccità in Australia? Non si può dire che abbiano usato la mano leggera, vero? — osservò Upton. — Questo non è il Consiglio buono e tollerante che conoscevo io. Qualche difficoltà per la siccità in Australia?

— No. È una richiesta che non presenta particolari problemi, è per questo che non ti ho consultato. L'ho affidata direttamente a Hiromaka. Ma dietro questa storia di Andrews c'è qualcosa che non mi piace. Sarà meglio che troviamo il modo di venirne a capo.

— Be' la Brackney ha proposto una soluzione così pazzesca che potrebbe funzionare davvero — disse Upton. — Penso che valga la pena lasciare che ci lavori sopra, poi possiamo discuterne e vedere se la sua proposta offre prospettive più incoraggianti delle tecniche tradizionali.

Anna Brackney, che era rimasta ad ascoltare sulla porta, avanzò di qualche passò e protestò. — Che cosa vorrebbe dire "pazzesca"? La mia idea è giusta, siete voi che non volete che sia io a occuparmi di questo caso! Tutto qui. Siete voi che...

— Calma, Anna, calma — la interruppe Greenberg. — Le cose non stanno come dice lei. Sarà lei a lavorare a questo progetto, perciò non...

— Perfetto, comincio immediatamente — esclamò la donna. Dopodiché fece dietrofront e scomparve.

I due uomini si guardarono. Upton scrollò le spalle e Greenberg levò gli occhi al soffitto, scosse la testa e sospirò.

 

La scienziata si sedette nel suo angolo e fissò il muro. Trascorsero dieci minuti prima che smettesse di succhiarsi il dito e altri venti prima che estraesse dal cassetto della scrivania un bloc-notes e iniziasse a scarabocchiare alcuni appunti. Ma dopo tutto accadde rapidamente. Con la sua prima equazione riportata su un foglietto di carta, uscì dall'ufficio per cercare uno dei matemeteorologi interni. Avrebbe potuto convocarne uno nel suo ufficio attraverso l'interfono, ma aveva preferito non farlo.

Gli interni lavoravano tutti insieme in una grande stanza. Quando Anna si affacciò sulla soglia, chinarono tutti la testa sulla scrivania, come se fossero oberati di lavoro. Ignorando il loro comportamento, Anna si avvicinò al tavolo di Betty Jepson e le mise il foglio sotto il naso. Poi, senza preamboli, disse: — Fammi un'analisi di regressione su questa — e con il dito sottolineò l'equazione: y = a1x1 + a2x2+...+anxn, con n uguale a 46. Prendi i dati di osservazione dalle banche del computer Numero Ottantatré. Voglio un'approssimazione superiore al novanta per cento. — Detto questo, girò sui tacchi e ritornò nel suo ufficio.

Mezz'ora dopo era di ritorno con un'equazione per Charles Bankhead, poi con una per Joseph Pechio. Una volta tracciato lo schema di lavoro, chiese la collaborazione di un matemeteorologo a tempo pieno e Greenberg le assegnò Albert Kropa. Kropa ascoltò l'esposizione alquanto sconnessa della sua teoria, quindi incominciò a passare fra i tavoli dei suoi colleghi per vedere che cosa stessero facendo. A poco a poco capì in quale direzione fosse orientato il loro lavoro e, poco dopo, si precipitò nel suo ufficio per elaborare relazioni polinominali per suo conto.

Ciascuna equazione richiedeva l'impiego di un computer sedici-cinquanta e di tutto il personale ad esso addetto, coordinato da un matemeteorologo, più sei ore di orologio di lavoro ininterrotto: e tutto questo soltanto per raggiungere un risultato preliminare. Quando Anna e Kropa sottoposero agli analisti ulteriori equazioni, fu chiaro che per risolverle singolarmente era necessario troppo tempo. Così la studiosa sospese momentaneamente il lavoro e, nelle due ore che seguirono, programmò un venti-due-trenta per elaborare i fattori necessari per ciascuna analisi di regressione. Il computer cominciò a sfornare le equazioni richieste al ritmo di una ogni dieci minuti, cosicché Anna e Kropa furono costretti a studiare, un metodo per correlare fra di loro la valanga di dati da cui erano subissati ogni volta che veniva completata un'analisi. Dopo mezz'ora, però, si resero conto che non avrebbero potuto concludere quella fase del progetto prima che i dati cominciassero ad affluire. Perciò, chiesero e ottennero la collaborazione di altri due matemeteorologi a tempo pieno.

I quattro ricercatori lasciarono la Sala di Studi Meteorologici per poter lavorare tutti insieme. Nel volgere di un breve tempo furono coinvolti anche tutti gli altri interni e, un'ora più tardi, vennero impegnati tutti i sedicicinquanta disponibili, al punto che Greenberg si vide costretto a telefonare all'Università di Stoccolma per chiedere il permesso di utilizzare anche i loro calcolatori. Il lavoro proseguì per altri venti minuti, dopodiché Greenberg dovette chiedere che fossero messi a disposizione del suo Ufficio cinque computer industriali della città. Ma nemmeno quello bastò. La rete di computer si allargò sempre di più, estendendosi a tutti gli elaboratori del continente, fino a coinvolgere, in capo a un paio d'ore, quelli delle città della costa orientale degli Stati Uniti. Quando si trattava di risolvere un problema meteorologico, l'autorità del Comitato diventava assoluta.

A un certo punto fu indispensabile che anche Upton si unisse al gruppo di lavoro e, quando anche Greenberg in persona, prese posto nel grande cerchio che si era formato nella Sala degli Studi Meteorologici, gli studiosi interruppero il lavoro per lanciare al suo indirizzo fischi e battute affettuosamente sarcastiche. L'impegno dei Consulenti era totale.

Anna Brackney sembrava non accorgesene. Aveva lo sguardo appannato e si rivolgeva ai colleghi con frasi brusche e concise, che contrastavano con il suo abituale modo di parlare vago e confuso. Sembrava che fosse sempre in grado di prevedere quando si sarebbe verificato un intoppo nel crescente flusso di dati, e interveniva tempestivamente a garantire la necessaria continuità. Fu solo alle tre del pomeriggio che Hiromaka si rese conto che nessuno di loro aveva ancora pranzato. Greenberg ordinò nuovamente da mangiare alle ventitré e, ancora una volta, alle nove del mattino successivo.

I ricercatori avevano un aspetto terribile, con le guance infossate, gli abiti stropicciati e grandi borse sotto gli occhi. Ma nei loro sguardi brillavano l'entusiasmo e l'eccitazione di chi si rendeva conto di collaborare alla soluzione del più difficile problema di natura meteorologica che i Consulenti avessero mai affrontato.

Upton si assunse l'incarico di mettere assieme i modelli matematici del pianeta Terra. A lui spettava il compito di controllare i risultati delle analisi di regressione relative a variabili quali: le diverse possibili distanze della Terra dal Sole; le posizioni rotazionali della Terra rispetto al Sole; la forma, la posizione, la densità, la variazione e la carica di entrambe le fasce radioattive di Van Alien; la velocità, la temperatura, la direzione, l'ampiezza e la massa di millequattrocento scie di aeroplano; il flusso termico delle principali correnti oceaniche; gli effetti sulle correnti d'aria di tutte le principali masse terrestri; il contenuto termico delle masse terrestri; l'effetto di Coriolis e, oltre a questi e molti altri fattori, l'effetto delle condizioni climatiche attuali e di quelle programmate sulla superficie dell'intero globo terrestre.

Greenberg si occupava del Sole e dei risultati dell'analisi dei movimenti di ciascuna macchia solare; delle temperature e delle pressioni variabili nella fotosfera, dello strato di inversione, della cromosfera e della corona; delle variazioni dello spettro e della produzione relativa del ciclo del carbonio e della catena protone-protone.

Anna era in continuo movimento: sbirciava il lavoro di Upton, telefonava agli analisti di Washington D.C., affidava nuovi compiti ai matemeteorologi, inventava un nuovo sistema di numerazione per semplificare la registrazione dei modelli matematici di nuova derivazione nei computer. Si muoveva come in un sogno, ma quando qualcuno le poneva qualche domanda o quando si verificava qualche contrattempo, le sue reazioni non erano certo quelle di una sonnambula. Molti suoi colleghi, diversi operatori di computer e lo stesso Upton provarono il sapore amaro di certe dure osservazioni che fece su errori grossolani che avrebbero potuto facilmente evitare. A mano a mano che trascorrevano le ore e il lavoro diventava più frenetico, l'espressione, solitamente dura del volto di Anna si addolcì e la studiosa prese a camminare a busto eretto, anziché nel solito modo dinoccolato. Molti matemeteorologi che, fino al giorno prima, non si sarebbero nemmeno sognati di rivolgerle la parola, se non costretti, si scoprirono improvvisamente disposti a confrontarsi con lei e a chiederle consigli di lavoro.

 

La prima soluzione parziale del problema fu elaborata entro le undici del mattino successivo. La sua attendibilità era soltanto dell'ottantun per cento, nondimeno, per essere un risultato preliminare non era male. Avrebbero fatto rapidi progressi. Ma Upton rilevò un grave inconveniente. — Non va bene — disse. — Questa soluzione comporterebbe un inasprimento di dodici volte della condizione di siccità richiesta per l'Australia. Ci mancherebbe altro. Combiniamo un guaio del genere e ci ritroviamo tutti quanti a leggere contatori della luce.

Quella battuta suscitò l'ilarità dei presenti che scoppiarono in una risata fragorosa e inarrestabile. Nel giro di pochi istanti, tutto il personale del Palazzo del Gomitato cadde preda di un accesso di risa convulse al limite della crisi isterica. Dovettero trascorrere svariati minuti prima che. asciugandosi gli occhi, gli studiosi e gli operatori si rimettessero al lavoro. Greenberg disse: — È questo il rischio più grande. Che potrebbe riguardare l'Australia o qualche altra regione della Terra. Dobbiamo fare in modo che la perturbazione nevosa in California non provochi reazioni catastrofiche da qualche altra parte del globo.

Anna Brackney. che l'aveva sentito, replicò: — De Pinza sta elaborando un'analisi definitiva per assicurarsi che non si verifichino reazioni indesiderate. Sarà pronta fra un'ora. — Dopodiché si allontanò e Greenberg rimase a fissarla incredulo.

Erano le tre del pomeriggio quando fu completata l'ultima batteria di equazioni. La soluzione alla quale gli scienziati erano pervenuti era approssimata al novantaquattro per cento e al controllo incrociato con l'analisi di De Pinza risultò affidabile al cento e due per cento. I matemeteorologi si assieparono attorno al grande tavolo, dove Greenberg stava esaminando i risultati. Avevano finito appena in tempo. La procedura che avevano messo a punto prevedeva operazioni sulla superficie solare da avviare tre ore dopo l'inizio del secondo turno, che sarebbe incominciato dopo quattro ore. Greenberg si sfregò la barba lunga di qualche giorno e disse: — Non so se dare il via libera a questa operazione oppure no. Potrei riferire che non abbiamo ancora sperimentato queste procedure e che forse non dovremmo usarle tutte insieme.

Tutti i presenti si voltarono a guardare Anna Brackney, che aveva reagito alle parole di Greenberg con suprema indifferenza. Fu Upton a dar voce al pensiero di tutti: — In questo lavoro c'è un po' del cuore di ciascuno di noi. — Poi, accennando con il capo alla sequenza di equazioni, aggiunse: — La soluzione alla quale siamo giunti rappresenta quanto di meglio siamo in grado di proporre. Perciò non capisco perché dovremmo suggerire al Consiglio di non attuarla. Per il momento queste equazioni rappresentano il migliore contributo che il Comitato è in grado di offrire: nel senso che rappresentano i Consulenti stessi. Ritengo che sia noi sia le persone che ci hanno eletto a questa carica dovremmo essere sempre disposti a rischiare, puntando sul massimo di ciò che possiamo dare.

Greenberg annuì e, consegnando i due fogli con le equazioni a uno dei matemeteorologi, disse: — Suddivida le operazioni da compiere sulla superficie solare per ordine di priorità e poi le trasmetta all'Ufficio Meteorologico. Spero che non debbano sudare le sette camice come abbiamo fatto noi. — Poi, sfregandosi il mento, commentò: — Be', dopo tutto è per questo che ci pagano.

Il matemeteorologo prese i fogli e uscì. Lentamente, anche gli altri lasciarono la sala, finché rimasero soltanto Greenberg e Upton. — È un grande onore per Anna Brackney — osservò Upton. — Mi domando dove abbia preso l'ispirazione.

— Chi lo sa — disse Greenberg. — Ma se la vedo ancora con quel dito in bocca, potrebbe venirmi la tentazione di mandare a monte tutto quanto.

Upton si abbandonò a una risata chioccia. — Se riesce a portare in porto questa faccenda, penso che faremo meglio a mettercelo tutti quanti il dito in bocca!

 

James Eden rotolò fuori dalla sua cuccetta e rimase in equilibrio sui talloni. Sì, dal ponte proveniva una piccola vibrazione, appena percettibile. Eden scosse la testa. Il sole era agitato; si prospettava un'altra brutta giornata. Se la Base vibrava, sarebbe stata dura governare le barche sessili. Era sempre così. Quando il compito era facile, le condizioni di lavoro erano perfette; quando la missione era più ardua, potevi star certo che eri costretto a lavorare in condizioni proibitive. Ma non era una novità per gli addetti dell'Ufficio. Ne parlavano perfino i manuali: era il corollario di una vecchia Legge di Finagle.

Eden si sbarbò e si vestì, domandandosi quale genere di incarico gli avrebbero assegnato quel giorno. Loro erano sempre gli ultimi a venire a sapere le cose, eppure era a loro che toccava tutto il lavoro sporco. In realtà, il Congresso Meteorologico dipendeva interamente dall'Ufficio. Il Consiglio non era un ritrovo di politici vecchi e grassi, che si facevano favori a vicenda e passavano la giornata a concordare Grandi Patti. I Consulenti del Comitato erano una manica di pazzi, che se ne stavano comodamente seduti sulle chiappe a leggere ad alta voce quello che sputavano fuori i computer. L'Ufficio, invece, era tutt'altra cosa: i tecnici che ne facevano parte erano uomini dotati di profonda abnegazione, che lavoravano per permettere alla Terra di prosperare. Era bello far parte dell'Ufficio Meteorologico... Ah, rieccoci un'altra volta.

Eden non riusciva a fare a meno di pensare al problema che lo assillava da qualche giorno. Si sfregò la fronte e rifletté di nuovo sulla caparbietà delle donne. Rebecca, capelli neri e occhi neri, pelle candida e morbida, era pronta a sposarlo, appena fosse rientrato sulla Terra, ma soltanto a patto che avesse lasciato l'Ufficio. Gli sembrava di sentirla, mentre, premendogli la mano sulla guancia e guardandolo diritto negli occhi, gli diceva: — Non sono disposta a dividerti con niente e con nessuno, nemmeno con il tuo amato Ufficio. Io non voglio un marito a metà. Devi scegliere. — Se si fosse trattato di qualsiasi altra donna, le avrebbe fatto una bella risata, poi l'avrebbe presa in braccio e lanciata in aria, facendole ritornare subito il buon umore. Ma non Rebecca: non Rebecca dai lunghi capelli neri. Maledizione!

Si voltò di scatto, uscì dalla minuscola cabina e si avviò verso la mensa. Nella sala c'erano già una decina di uomini, che ridevano e chiacchieravano. Ma quando lo videro entrare, tacquero e lo salutarono con un cenno della mano. — Ehi, Jim. — Era ora che ti alzassi. — Felice di vederti, amico.

Eden riconobbe immediatamente i sintomi. Erano tesi, parlavano e ridevano troppo forte. Erano palesemente contenti che fosse arrivato. Avevano bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi e, nel suo intimo, Eden li compatì un po'. Adesso potevano smettere di fingere che andasse tutto bene. Anche loro avevano avvertito la vibrazione sul ponte.

Eden si sedette e disse: — 'Giorno. Nessuna novità per quanto riguarda il nostro turno?

Gli altri scrollarono la testa e Pisca disse: — Non una parola. Noi siamo sempre gli ultimi a sapere quello che bolle in pentola. Sulla Terra sanno tutti quello che succede, ma noi no. A noi arrivano soltanto le chiacchiere e aspettano a informarci quando è ora di mettersi in moto.

— Be', non devi dimenticare che le comunicazioni con l'Ufficio non sono la cosa più semplice del mondo — osservò Eden. — Non possiamo pretendere di sapere subito tutto quello che succede. Comunque, in un certo senso, sono d'accordo con te: penso anch'io che potrebbero tenerci informati meglio su quello che accade sulla Terra.

 

Gli altri annuirono, poi ognuno si concentrò sulla colazione. Rimasero seduti a chiacchierare fino a quando risuonò un debole rintocco. Si alzarono. Era l'ora della riunione informativa e si avviarono tutti verso la sala operativa, in cima alla Base. Il comandante Hechmer era già nella stanza quando entrarono e presero posto. In passato, Eden si era chiesto spesso se Hechmer non gli riservasse un trattamento diverso rispetto agli altri; gli lanciava qualche occhiata in più, prestava maggiore attenzione alle sue domande, gli parlava più a lungo durante le riunioni: piccole cose, ma significative.

Il comandante John H. Hechmer aveva solo quarantacinque anni, ma era già un mito all'Ufficio Meteorologico. Era stato lui a elaborare e a perfezionare la tecnica della Corrente di Precisione, grazie alla quale era possibile estrarre da una macchia solare a 4.560 gradi un sottile flusso di protoni e dirigerlo contro qualsiasi parte della Terra esposta al sole. Dall'epoca in cui Hechmer rivestiva l'incarico di Maestro Anziano di Barca erano stati fatti passi da gigante nel controllo del clima. Erano stati elaborati modelli climatici così sofisticati e precisi applicabili alla Terra, da lasciare stupefatti gli stessi esperti. Hechmer era stato anche coordinatore dei Consulenti, ai quali aveva illustrato la nuova, accresciuta portata delle capacità dell'Ufficio. Nessuno aveva mai dimostrato un'abilità pari alla sua nel governare una Barca del Sole e, uno degli obiettivi che si proponeva Eden nella sua carriera, ammesso che decidesse di restare all'Ufficio, era proprio quello di venire ricordato come colui che, più di ogni altro, era riuscito a emularlo.

Eden lo osservò e, quando finalmente Hechmer sollevò gli occhi dal tavolo, gli parve che il suo sguardo indugiasse per alcuni istanti su di lui, prima di spostarsi sul resto del gruppo. Era come se Hechmer si fosse voluto assicurare che lui era presente. Eden non poteva esserne sicuro, ma quel sospetto bastò a fargli raddrizzare la schiena.

Hechmer disse: — Questa è la Prima Fase dell'operazione che ci ha affidato il Comitato. — Così dicendo, proiettò una pagina fitta di indicazioni sul pannello luminoso alle sue spalle. A Eden bastò una rapida occhiata per capire che si trattava di qualcosa di completamente diverso rispetto alle normali procedure. Subito dopo si abbandonò contro lo schienale della sedia e si concentrò sulle possibilità di realizzazione pratica di quel progetto messo a punto dai Consulenti. Non si era accorto che Hechmer aveva notato l'immediatezza con cui aveva afferrato il nocciolo del problema. Dovettero trascorrere ancora alcuni istanti prima che, con esclamazioni soffocate e fischi di sorpresa, anche gli altri dessero segno di aver inquadrato la questione.

Hechmer tacque, mentre gli uomini leggevano e rileggevano le indicazioni. Adesso stavano riflettendo sui correttivi da apportare alle disposizioni del Comitato per poterle attuare. I Consulenti si vantavano sempre di esporre le loro soluzioni in termini chiari ed espliciti. Ma, in pratica, le loro ipotesi di intervento erano assolutamente inattuabili, perché non prevedevano il dato relativo a una delle incognite maggiori per i tecnici dell'Ufficio, e cioè le condizioni solari in cui sarebbero stati costretti a lavorare. Per quel problema la matematica non forniva soluzioni. Uno degli scherzi tipici che i tecnici dell'Ufficio riservavano ai Consulenti era quello di ascoltarli compitamente mentre esaltavano l'accuratezza delle loro soluzioni, sostenendo, fra l'altro, che ai tecnici non veniva chiesto di pensare, per poi domandare loro a bruciapelo che cosa ne sapessero della "granulazione d'inversione". Nessuno, a eccezione dei membri dell'Ufficio poteva sapere che cosa fosse quello strano fenomeno che si verificava ogni tanto nelle regioni inferiori dello strato di inversione.

Trascorsero lunghi minuti di silenzio. Eden aveva la fronte corrugata. Dopo un po', intuì una possibile via d'uscita e, tirato verso di sé un bloc-notes, cominciò ad annotare alcuni appunti. Anche Hechmer stava analizzando alcuni dati, mentre gli altri continuavano a fissare la pagina come ipnotizzati. Dovettero trascorrere non meno di dieci minuti prima che qualcun altro cominciasse a buttare giù alcune considerazioni.

Eden si appoggiò allo schienale della sedia e rilesse quanto aveva scritto. Con crescente eccitazione, si rese conto che la soluzione da lui ipotizzata non era mai stata sperimentata. Dopo un esame più attento, tuttavia, capì che forse non sarebbe stato possibile attuarla: il suo approccio era troppo radicale e richiedeva un impiego della barca sessile non previsto dalle caratteristiche del mezzo.

 

— Signori, è ora di mettersi al lavoro — disse Hechmer. — Per cominciare, ecco la mia ipotesi di soluzione. Esaminatela se potete.

Eden vi diede un'occhiata. Anche la proposta del comandante era nuova, ma nel senso che prevedeva l'impiego di tutte le Barche sul Sole, cosa che prima non era mai stata necessaria. In altre parole, Hechmer proponeva di risolvere il problema puntando sulla quantità, in modo da estrarre dai vari livelli dell'atmosfera solare tutte le correnti e gli strati necessari per ottenere il clima desiderato sulla Terra. Ma a un esame più attento, Eden si accorse di alcune incongruenze. Provenendo da diverse parti della superficie solare, le correnti avrebbero colpito la Terra e i suoi dintorni ad angolazioni leggermente diverse da quelle previste. Forse la soluzione di Hechmer avrebbe funzionato, ma probabilmente la sua avrebbe avuto maggiori probabilità di successo.

Hechmer disse: — Il principale inconveniente di questo piano è la dispersione delle correnti d'urto. Avete idea di come si potrebbe risolvere?

Eden non lo sapeva, ma in quel momento non riusciva a pensare ad altro che al suo progetto. Se solo avesse avuto la certezza che le Barche avrebbero sopportato l'immersione nell'atmosfera solare per il periodo di tempo necessario, i problemi si sarebbero ridotti al minimo. Be', forse le comunicazioni sarebbero state più difficili, ma con una sola Barca la necessità di tenere i contatti sarebbe stata minore. E, naturalmente, la Barca avrebbe dovuto cavarsela da sola, senza la possibilità di ricevere istruzioni o soccorsi dall'esterno.

Uno degli altri tecnici stava avanzando l'ipotesi, impraticabile, di far lavorare le Barche più vicine fra di loro, un errore gravissimo, perché le Barche non erano in grado di controllare i rispettivi tori con sufficiente precisione. Senza riflettere, Eden lo interruppe, dicendo: — Forse questa è una soluzione possibile. — E appoggiò il foglio sul tavolo.

Hechmer continuò a fissare l'uomo che stava parlando, attendendo educatamente che finisse di esporre la sua tesi. Ma il tecnico preferì evitare una figura imbarazzante, e disse: — Vediamo che cosa ha da offrire Jim, prima di andare avanti.

Hechmer fece scivolare il foglio che gli stava porgendo Eden nel visore e, sul pannello luminoso alle sue spalle, ne apparve l'immagine ingrandita. Quanto meno, si trattava di un progetto facile da capire. Dopo pochi istanti, ne stavano già parlando tutti contemporaneamente, sostenendo, quasi all'unanimità, che era irrealizzabile. — Perderai la Barca. — Sì, e anche l'equipaggio. — Non funzionerebbe nemmeno se la Barca sopportasse l'immersione. — Non è possibile spingere una Barca così in profondità.

Eden osservò Hechmer mentre studiava il suo progetto. Lo vide sgranare gli occhi, poi socchiuderli, finché si accorse che Eden lo stava scrutando. Allora, la scena svanì per un istante davanti ai suoi occhi e il comandante rivide, seduto in una sala simile a quella, un Hechmer molto più giovane e più impulsivo, che osservava con trepidazione il suo superiore, intento a esaminare un progetto di analoga portata innovativa. Quindi, senza sollevare lo sguardo dal foglio, disse: — Partendo dal presupposto che la Barca possa restare immersa per un tempo sufficiente, per quale motivo questa soluzione non dovrebbe funzionare?

— Be' — rispose uno dei tecnici che avevano bocciato il progetto — perché non è detto che le correnti e gli strati emergeranno nella direzione... — Ma mentre parlava si rese conto che l'energia del campo della macchia solare sarebbe stata incanalata per fungere da lente di ingrandimento, e ammutolì.

Hechmer annuì scuotendo la testa. — Sono contento che ci sia arrivato da solo. Qualcun altro ha qualche obiezione da fare? Qualcuno ritiene che potrebbe verificarsi qualche problema, posto che la Barca sia in grado di sopportare l'immersione nell'atmosfera solare? — Gli uomini erano preoccupati, ma dovettero ammettere che, a parte quella, non sussistevano altre difficoltà. Hechmer riprese: — D'accordo. Allora adesso vediamo perché una Barca non potrebbe sopportare quel genere di immersione.

— Perché l'effetto sessile è minore rispetto a quello in superficie. Brucerebbe immediatamente — rispose uno.

— No — replicò con prontezza Eden. — Basterà raddoppiare la quantità di carbonio nei tori superiori.

Discussero per mezz'ora. Eden e altri due difendevano il progetto, finché riuscirono a vincere le obiezioni del resto del gruppo. Quindi, si impegnarono tutti a perfezionare il piano per ridurre al minimo i rischi. Quando ebbero concluso, a Hechmer non restava più nessuna decisione da prendere. I Maestri di Barca avevano approvato la soluzione di Eden ma alla tacita condizione che sarebbe stata la sua Barca a cimentarsi nell'impresa. Mancava soltanto mezz'ora all'inizio del turno e andarono tutti a prepararsi.

 

Eden infilò la tuta di piombo, imprecando a mezza bocca, come facevano tutti i Barcaioli, fin dal giorno in cui il primo di loro aveva iniziato a fare quel mestiere. Le Barche erano dotate di un ottimo sistema di protezione e le tute servivano soltanto a schermare i tecnici nel caso di infiltrazioni radioattive. Ma sul Sole era improbabile che la contaminazione radioattiva fosse di così piccola entità da poter essere contrastata da una tuta di piombo; qualora si fosse verificata anche una piccolissima falla nella Barca, l'esposizione all'atmosfera solare li avrebbe uccisi prima ancora che potessero rendersi conto di quello che stava succedendo. In quel caso, l'utilità della tuta era pari a quella di una piuma utilizzata per arginare un'eruzione vulcanica. Nondimeno, il regolamento prescriveva che tutti i tecnici la indossassero prima di salire a bordo.

Il trasferimento dalla Base alla Barca era sempre una manovra rischiosa. Il toro, situato sopra il sistema di bloccaggio, non era una parte fissa del meccanismo e, se si spostava, il tecnico poteva venire colpito in pieno dalla forza di attrazione gravitazionale del Sole. Eden scivolò nella Barca e fece il consueto giro di ispezione prima di prendere posto e iniziare le manovre di avviamento.

Sulla superficie del Sole persisteva uno stato di notevole turbolenza. Per prima cosa, Eden controllò la riserva di carbonio, il gas che, evaporando, formava una specie di pellicola sottilissima che proteggeva la Barca dal rischio di fusione. La Barca si muoveva attraverso la pellicola gassosa come una goccia d'acqua attraverso uno strato di vapore su una lastra incandescente: era quello l'effetto sessile. Subito dopo, Eden controllò i tori. Lì, in un condotto circolare, alcuni chili di protoni viaggiavano a una velocità di poco inferiore a quella della luce. A quella velocità i protoni raggiungevano il peso di un numero incalcolabile di tonnellate, e questo serviva a bilanciare l'enorme attrazione gravitazionale esercitata dal Sole. Lo stesso nastro magnetico, che forniva il campo necessario per mantenere i protoni nello stato di massa pesante, serviva anche a mantenere la medesima polarità della vicina superficie solare. In questo modo il toro e la superficie del Sole si respingevano a vicenda. Tutto ciò che si trovava sotto il toro era soggetto a due campi gravitazionali, dei quali quello esercitato dal toro annullava quasi, ma non del tutto, quello del Sole. Di conseguenza, gli uomini all'interno delle Barche e alla Base, lavoravano in condizioni di gravità 1.

Eden completò i controlli su tutte le parti meccaniche e strumentali della Barca. Ciascuno dei quattro uomini dell'equipaggio era responsabile di un settore del mezzo Cinque minuti prima di salpare, tutte le verifiche erano state ultimate e, quando scattò l'ora zero, presero il largo.

La Barca procedeva senza difficoltà sotto la guida di Eden. Ogni tanto, quando la superficie del sole si intorbidiva o ribolliva, sobbalzava e si impennava, ma lui continuò a puntare verso il largo, inclinando leggermente la prua verso il basso.

— Come va? — domandò via microfono.

In risposta gli giunse un coro di "bene". Eden inclinò ulteriormente la Barca per aumentarne la velocità. Non avevano molto tempo a disposizione e dovevano coprire una distanza considerevole. Come sempre, quando aumentava la velocità, Eden si sentiva euforico e anche quella volta fece quello che faceva di solito.

Con cautela abbassò, uno dopo l'altro, i pannelli insonorizzanti sulla paratia accanto al posto di guida. Quando tirò giù l'ottavo pannello, lo udì in lontananza; allora calò lentamente anche il nono e, quando abbassò quello successivo, il ruggito riempì la cabina. Eden si abbandonò contro lo schienale della poltroncina, lasciandosi avvolgere dal rombo tonante, così violento da far tremare il suo corpo, così possente da spogliare la sua mente di tutto tranne che del bisogno di lottare, resistere, colpire. Era il ruggito selvaggio del Sole, la concatenazione fragorosa di milioni di bombe atomiche che detonavano a ogni infinitesima porzione di secondo. Era un frastuono così terribile e violento che un uomo poteva esporre soltanto un'infinitesima parte di se stesso, se non voleva perdere la ragione. Ma anche così, quel fragore incuteva un timore sacro: era un invito alla purificazione e all'umiltà, monito all'uomo a concentrarsi su quello che stava facendo e a badare ai fatti suoi.

Era una cosa di cui Eden non aveva mai fatto parola con nessuno e di cui nessuno gli aveva mai parlato. Era il suo segreto, il suo modo di rinnovare e ravvivare ciò che faceva di lui l'uomo che era. Riteneva di essere l'unico dei piloti a comportarsi in quel modo e, non avendo per questo genere di cose la stessa acutezza che dimostrava in altri campi, non si era mai domandato come mai, in tutta la Barca, gli unici pannelli insonorizzanti mobili fossero proprio quelli situati accanto al posto di guida.

Per mezz'ora Eden guidò la Barca verso la prima area d'azione, affrontando, senza difficoltà, la solita turbolenza della superficie solare. Controllava l'efficienza del sistema di guida inerziale molto più frequentemente di quanto non richiedesse la procedura standard, per assicurarsi che i ripetuti piastrellamenti non compromettessero l'operazione. Quando furono prossimi all'area d'azione, Eden chiuse i pannelli insonorizzanti e iniziò le verifiche insieme agli altri membri dell'equipaggio. — Quattro minuti all'inizio dell'operazione. Che colore avete?

Dai quattro settori della Barca gli giunse la stessa risposta: — Tutto verde, Maestro. — A bordo della barca sessile erano iniziate le manovre. Ciascun uomo seguiva il proprio programma, le dita sulla testiera, i piedi sui pedali, in attesa che si accendesse la luce di posizione. La luce occhieggiò.

Dal ventre della barca uscirono le capsule siluriformi e penetrarono nelle viscere del Sole, dove infuriava il ciclo carbonio-azoto. Alla temperatura di 3,5 milioni di gradi, le testate si disintegrarono, riversando in quella fucina infernale una carica di azoto pesante. L'azoto pesante, liberato al termine del ciclo carbonio-azoto, annullò lo stato di stabilità, provocando un abbondante flusso di elio, che servì a smorzare e a raffreddare le reazioni di fusione in tutta l'area. Lo shock termico che seguì provocò un subitaneo collasso, seguito da un incredibile aumento della pressione e relativo incremento della temperatura. Si verificò un'esplosione di immense proporzioni che, salendo verso la superficie, formò un fronte avanzato, che progrediva a gran velocità in direzione della Terra, incanalando grandi masse di protoni verso il sito prescelto in prossimità del pianeta. A quanto sembrava, la prima fase dell'operazione era riuscita.

Nell'ora successiva, la Barca si spostò da un sito all'altro per far detonare le cariche di volta in volta necessarie a creare una potente scarica di elettroni, a smorzare un'esplosione o a spostare l'ubicazione di una macchia solare. In un paio di circostanze gli strumenti di bordo rilevarono che le detonazioni non si erano verificate in posizioni sufficientemente precise da fornire un risultato conforme alle previsioni, per cui si dovette ricorrere a detonazioni supplementari.

Eden era in costante collegamento con le altre tre Barche e con la Base, ma le comunicazioni erano difficili. Nessuno degli equipaggi impegnati nella missione se ne rese conto, ma due ore dopo l'inizio dell'operazione, il mutamento climatico che avrebbe causato la siccità in Australia era già in corso.

L'approssimarsi della fase successiva della missione, quella che si sarebbe svolta in profondità, non creò tensione fra gli uomini di Eden; erano tutti troppo occupati per pensarci. Quando fu l'ora, il capitano si limitò a provvedere alle necessarie verifiche con i membri del suo equipaggio e a ridurre la polarità del campo magnetico sul toro. La Barca si immerse rapidamente, lasciandosi alle spalle la fotosfera. Eden controllò la diminuzione della temperatura sulle pareti esterne dell'imbarcazione; quando l'effetto sessile si attenuò, volle saperne il motivo. Le pareti interne cominciarono a riscaldarsi prima di quanto avesse previsto e, una volta iniziato, il processo fu molto più rapido rispetto ai suoi calcoli. Da un controllo risultò che l'incremento della temperatura era superiore alla velocità di immersione: era impossibile raggiungere la profondità prevista senza rischiare il surriscaldamento. Dunque, i suoi calcoli erano sbagliati. La Barca non era in grado di sopportare quella temperatura. — Troppo caldo, troppo caldo! — disse ad alta voce. Controllò l'altimetro: dovevano scendere ancora di ottocento metri. Fare uscire l'acqua nel punto in cui si trovavano non aveva senso. O alla profondità prevista o niente. L'operazione rischiava di fallire.

Eden non indugiò a riflettere prima di decidere: con una mossa repentina, spense i generatori di controllo della polarità del toro e la Barca precipitò come un masso verso il centro del sole. Si abbassò di ottocento metri in quaranta secondi, percorrendo gli ultimi due-trecento metri in violenta decelerazione, perché Eden aveva riacceso i generatori. La discesa era stata così rapida che l'incremento della temperatura fu minimo. Eden premette il pulsante dell'emissione del carico d'acqua ed eseguì tutte le manovre previste. Nel giro di dieci secondi la scissione fu completa e un'esplosione di Ossigeno 15 partì in direzione della Terra. L'operazione poteva dirsi felicemente riuscita.

Eden incrementò la potenza del toro e la Barca iniziò a risalire verso la fascia di relativa sicurezza della superficie solare. Il periodo di immersione in profondità era stato abbastanza breve, e all'interno dell'imbarcazione la temperatura non aveva superato il livello, ancora tollerabile, di 48 gradi centigradi. Ma quando furono a poche migliaia di metri dalla meta, sul pannello di controllo apparve un segnale di avaria.

Il moto di risalita, fino a quel momento costante, rallentò progressivamente fino ad arrestarsi. La Barca precipitò per alcuni metri, rimbalzò e poi rimase immobile. Non c'era modo di incrementare la polarità del toro. Gli strumenti segnalavano che la potenza alle serpentine era al massimo, eppure non era sufficiente. Eden avviò una verifica. In quello stesso istante una voce via radio disse: — Una parte della serpentina fuoribordo di destra è fuori uso. Forse è fusa, ma voglio fare un altro controllo.

Eden concentrò la propria attenzione sulle serpentine e, poco dopo, notò la riduzione del rendimento. Attivò tutte le termocoppie e gli altri trasduttori vicini alla serpentina di destra e, nel giro di un paio di minuti, capì quello che era successo. La serpentina si era fusa nel punto in cui curvava per formare l'angolo: lì l'effetto sessile doveva essere stato meno efficace e il calore eccessivo aveva attraversato la pellicola di vapore di carbonio e aveva lesionato i cavi, realizzati in una lega di titanio e molibdeno. La compromissione della serpentina impediva di incrementare la polarità del toro in misura sufficiente a far risalire la Barca.

Eden spiegò la situazione all'equipaggio. Una voce allegra replicò: — Sono contento di sentire che non si tratta di una cosa tanto grave. Se ho capito bene, il problema è semplicemente che non siamo in grado di risalire. È così Maestro?

— Per il momento è così. Qualcuno ha qualche suggerimento?

— Sì, signore. Chiedo un permesso.

— Accordato — rispose Eden. — Ma vedete di pensare un po' al da farsi. In un modo o nell'altro dobbiamo tornare su.

Nella Barca calò il silenzio. Per venti minuti nessuno parlò. Alla fine, Eden disse: — Cercherò di chiamare la Base.

Per dieci minuti Eden tentò di mettersi in contatto con la Base o con qualche altra Barca sintonizzata sulla sua lunghezza d'onda. Quando stava già per rinunciare, udì una risposta lontana e confusa. Nonostante le interferenze, gli parve di riconoscere la voce del Maestro Dobzhansky. Eden trasmise la richiesta di soccorso, ripetendo il messaggio più e più volte, in modo che l'equipaggio dell'altra Barca potesse riempire le lacune dovute alle difficoltà di comunicazione. Poi si mise in ascolto, finché ricevette conferma che il loro s.o.s. era stato ricevuto e che avrebbero provveduto a informare la Base. Ma subito dopo, il collegamento si interruppe. Eden controllò la posizione della Barca e si accorse che erano usciti dall'area di comunicazione. Allora inclinò l'imbarcazione e la manovrò in modo da descrivere un cerchio. A tre quarti del percorso, captò di nuovo il segnale radio e si rimise in ascolto. Ma non intercettò nient'altro che comunicazioni di routine.

Uno degli uomini dell'equipaggio disse: — Molto bene. Riusciamo a muoverci con la massima facilità in tutte le direzioni tranne in quella che ci interessa.

Nel frattempo, la Base aveva preso contatto con la Barca che aveva raccolto il loro s.o.s. Alla radio c'era Hechmer in persona. Tutto quello che disse fu: — Restate in attesa, mentre cerchiamo di vedere come intervenire.

Non c'era più allegria nelle battute che si scambiavano gli uomini di Eden. L'imbarcazione sprofondò di un'altra ventina di metri, senza che nessuno potesse farci niente. Uno spigolo vivo contro una serpentina e la Barca non avrebbe più avuto nessuna possibilità di risalire in superficie. I membri dell'equipaggio fissavano con ansia le spie sui quadranti di controllo.

Sul pannello di Eden fluttuò l'immagine di una chioma nera e il capitano immaginò lo sguardo di rimprovero sul suo volto. Era questo che intendeva la bruna Rebecca quando gli diceva: — Non voglio dividerti con niente e con nessuno. — Allora capì perché in quel momento lei stava sicuramente soffrendo per lui, intrappolato nell'inferno del Sole dove nessun uomo era mai stato.

— Perso di nuovo la Barca, Maestro. — Quelle parole lo innervosirono. Inclinò l'imbarcazione e iniziò a descrivere un altro cerchio. Il fantasma di Rebecca era sempre con lui, finché, con un moto di stizza, lo cacciò via. Ma che cosa stava facendo? Permetteva alle preoccupazioni di una donna di interferire con il suo lavoro? No, non poteva. Non poteva permettersi di avere la mente confusa, né di promettere fedeltà a due diversi padroni... E allora capì in che modo avrebbe potuto tentare la risalita in superficie.

 

Mentre completava la traiettoria circolare, consultò le carte e individuò la macchia solare più vicina. Si trovava a un'ora di distanza dal punto in cui erano in quel momento. Si mise in collegamento con Dobzhansky e lo informò della sua intenzione di dirigersi verso la macchia: sarebbe riemerso lì. Eden non pose altro tempo in mezzo. Mentre chiudeva la comunicazione, iniziò la manovra. Con cauta destrezza, riuscirono a raggiungere la macchia solare in cinquanta minuti. Negli ultimi dieci minuti incrementarono al massimo la velocità. A una profondità di circa mille metri dalla superficie solare, penetrarono nell'area di discontinuità magnetica che caratterizzava la macchia.

Entrarono nell'area di discontinuità nella direzione opposta a quella della sua rotazione, cosicché le grandi serpentine della Barca incapparono in linee di enorme forza magnetica. Il moto generò energia: l'energia addizionale confluì nel toro e il moto trasversale della Barca si trasformò in quello ascendente di una lenta, ampia spirale. Dovettero pazientare parecchio prima di avere la conferma che l'imbarcazione stesse effettivamente risalendo ma, un'ora più tardi, giunsero in vista della superficie e, dopo poco, riuscirono a emergere. Continuarono a seguire il moto della macchia percorrendone il bordo, fino a quando la Base li raggiunse, li agganciò a Eden e i suoi uomini poterono trasbordare.

Eden fece rapporto a Hechmer e, insieme, decisero di arrotondare gli angoli troppo appuntiti di tutte le serpentine. Ma la cosa più importante era che la tecnica dell'immersione in profondità si era rivelata valida e praticabile; da quel giorno sarebbe stata annoverata fra le procedure abituali.

— Bene — commentò Eden verso la fine della riunione, stiracchiandosi. — Vedo che fra un'ora sarò di nuovo di turno. Non mi resta molto tempo per riposare.

La risposta di Hechmer lo ripagò pienamente della sua decisione di restare all'Ufficio. — Be', vero — disse Hechmer, dando un'occhiata al cronometro. — Le dirò quello che deve fare. Si presenterà al lavoro un'ora dopo.

 

George Andrews era molto stanco e ogni respiro gli costava uno sforzo immenso. Si trovava in cima a una collina, semi-sdraiato su un lettino soffice sotto il sole caldo della California e, con le dita, tirava le frange di una coperta sottile. A un tratto notò una strana nube di forma cilindrica, che sembrava sollevarsi da terra e salire verso gli altocumuli che punteggiavano il cielo azzurro. George Andrews sorrise perché adesso lo vedeva stagliarsi chiaramente. Il cilindro verticale di nuvole spumose, avanzava verso di lui e, quando l'estremità inferiore lo sfiorò, una ventata d'aria fredda lo fece rabbrividire. Quando cominciarono a cadere i primi fiocchi, l'uomo allontanò la coperta, in modo che la neve potesse depositarsi sul suo corpo. Protese il viso verso il cielo, e faceva freddo ed era bello. Ma era più di tutto questo: lui era un uomo felice.

Era la neve che aveva tanto amato da ragazzo. E il fatto che stesse nevicando significava che, in fondo, gli uomini non erano cambiati così tanto, perché avevano scelto di esaudire lo stupido desiderio di un vecchio signore. Non faceva più fatica a respirare adesso: non ne aveva più bisogno. Giaceva sotto una coperta di neve, ed era una bella coperta.

 

Torna a casa, Terrestre!

Earthlings Go Home!

di Mack Reynolds

Rogue, agosto

 

Una volta, uno scapolo avventuroso che andava a Lhasa o a Timbuctu, al suo ritorno poteva contare su un argomento di conversazione da sfruttare per qualche mese. Potete immaginare la scena: principale attrazione ai cocktails-parties, graziose ragazze che gli pendevano dalle labbra e gli altri uomini che se ne stavano soli, in diparte, con tanto di muso.

Ma adesso, tutti sono stati dappertutto. Provatevi ad accennare al viaggio che avete fatto in Cina, e almeno tre persone si metteranno a sbadigliare dicendo che è stato orribile quando si è guastato l'impianto per il condizionamento dell'aria all'Hilton di Pechino, in agosto. Un giramondo è raro quanto un'automobile a Manhattan.

E così arriviamo al dunque. Bisogna viaggiare fuori dal mondo, ragazzi. I viaggiatori spaziali sono ancora rari. Supooniamo che al prossimo ricevimento, mentre la conversazione ristagna, voi fissiate con disprezzo l'aperitivo secco che state bevendo e lasciate cadere con noncuranza una frase: — Quand'ero su Marte sono precipitato nel Canale Coolers. Là si che si beve secco. Acqua disidratata e woji.

Ci sono molti posti, nello spazio, ma se siete il tipo avventuroso di cui stiamo parlando, avrete scelto Marte per le vostre vacanze in quanto è un misto di città tentacolare e di paradiso delle occasioni, di cui non esiste l'uguale. Ma incominciamo dal principio.

Un'astronave è l'unico mezzo di trasporto che si possa raccomandare, e, quanto al costo, non c'è una gran differenza tra la Pan-Planets Spaceways e le Linee Spaziali Sovietiche. Tanto, non potete permettervi né l'una né l'altra. E non saltate alla conclusione che vi stiamo raccomandando di viaggiare come clandestini. L'ultimo caso del genere di cui abbiamo sentito parlare riguarda un giovane studente di nome Helmer Hung, che si nascose in un posto troppo vicino ai tubi di scarico dei razzi. Fu scoperto quando un ufficiale di bordo notò un gruppo di stivatori marziani che raccoglievano una specie di sugo di bistecca.

No, l'unico modo di farlo è utilizzare il nuovo sistema: Viaggiate oggi... pagheranno poi i vostri nipoti, il che è un misto fra il sistema governativo di spendere adesso e lasciare che i posteri se la sbroglino e l'antico sistema delle linee aeree Viaggiate adesso, pagherete dopo.

Sui viaggi spaziali non c'è molto da dire. Più veloci si va, più il viaggio è noioso. Camminate per cinque miglia e, con tutta probabilità, vedrete un mucchio di cose; forse vi capiterà qualche avventura, incontrerete qualche persona interessante, e il viaggio durerà almeno due ore. Se guidate per due ore lungo un'autostrada, percorrerete duecento miglia senza vedere nient'altro che la strada, senza avere alcuna avventura e c'è da augurarselo, in quanto le uniche avventure che potrebbero capitarvi sarebbero uno scontro o lo scoppio di una gomma. Passate le stesse due ore a bordo di un jet e attraverserete tutto il continente, ma, dal momento della partenza a quello dell'arrivo, con tutta probabilità vedrete solo la rivista che la hostess vi avrà dato per ammazzare il tempo.

Dunque, d'accordo; su un'astronave vi sentirete addosso una gran fifa durante la conta alla rovescia e il decollo, e poi ve ne resterete seduto senza far niente e senza vedere niente all'infuori dello spazio, e di questo ce n'è in abbondanza, fino a destinazione. Quindi, è un viaggio noioso.

Ma la noia finisce appena sarete atterrato sullo spazioporto di Marte. Signori, guardiamo in faccia la realtà. Le cose sono diverse su Marte. Se voi siete convinto di aver visto delle cose strane nel corso dei vostri viaggi, come le vasche da bagno verticali in Giappone, le strane abitudini sessuali in Scandinavia, il vitto in Inghilterra, la politica nel Sudamerica, non pensateci più. Finché non sarete arrivato su Marte, non potrete dire di aver visto niente di strano.

Ma incominciamo dal principio. Quel che vi occorrerà subito è un'imbottitura. A meno che non vi piaccia di dormire appeso per le ginocchia come un pipistrello, sarà meglio che scegliate un "motel" di tipo terrestre. Siamo della teoria che ci si debba adattare alle usanze locali; ma non so perché, i Terrestri non si adattano ai letti sospesi marziani.

Se siete a corto di mezzi potete provare l'associazione Marsport Young Men's Christian, Ebrea, Musulmana, Zen-Buddista e Agnostico Riformata. Senza entrare nei particolari, tutte le religioni terrestri hanno riunito le proprie risorse per aprire questo albergo. E non è una baraonda come potrebbe sembrare sulle prime. I Musulmani seguono la loro funzione religiosa il venerdì, gli Ebrei il sabato, i Cristiani la domenica, i Buddisti il martedì, e gli Agnostici vanno all'inferno a modo loro per tutta la settimana.

Volendo questa essere una descrizione della vita brillante di Marsport non c'è motivo di soffermarsi sui problemi religiosi; e quindi accenneremo solo di sfuggita al fatto che i Missionari terrestri hanno avuto del bel filo da torcere per stabilirsi su Marte, a qualunque confessione appartenessero. Questo, credo, è dovuto al fatto che i Marziani non sono religiosi. Cioè, credono che Marte sia stato creato da un dio o da alcuni dei, e che tutto quanto si trova su Marte abbia avuto la stessa origine. Ma la somiglianza con le religioni terrestri termina qui. Invece di adorare i loro dei, i Marziani li ignorano. Nei confronti della divinità assumono un atteggiamento direi sdegnoso, come di rimprovero. Un atteggiamento che sembra voler dire: "Perché-ci-avete-fatto-una-cosa-simile?". Sono, insomma, del parere che, se gli dei dovevano proprio levarsi lo sfizio della creazione, potevano far le cose un tantino meglio.

Se poi il vostro portafoglio non è troppo sguarnito, vi troverete sicuramente bene andando al Motel Accelerato. No, non è un refuso del proto né uno sbaglio del correttore di bozze. Non ho detto Motel Excelsior, ho proprio detto Accelerato, e se avrete un momento di pazienza vi mostreremo come anche se su Marte non disporrete di una macchina, vi trovereste ugualmente bene all'Accelerato. Naturalmente, non è sempre in città, ma è sempre possibile regolare le proprie attività in modo da prenderlo quando passa.

Poiché fa tanto caldo a mezzogiorno e tanto freddo a mezzanotte, i proprietari dell'Accelerato hanno risolto la questione tenendosi in moto. Per spiegarci meglio: l'albergo è motorizzato e sta sempre nella zona crepuscolare. Certo, non sarebbe pratico sulla Terra, dove l'attrazione gravitazionale è più forte e ci sono i confini tra stato e stato; ma, ripetiamo, Marte è diverso. Fortunatamente, poiché l'Accelarato appartiene a dei Terrestri, potrete pagare con valuta americana, e quindi da questo lato non ci sono difficoltà. Tuttavia, questo discorso ci porta a parlare del sistema monetario marziano. Non esiste.

Gli economisti terrestri di ogni tendenza, compresi i marxisti, ricevono sempre un violento choc quando cercano di capire il sistema di scambio dei Marziani; e, in effetti, non ottengono grandi risultati. Gli storici marziani ammettono che, qualche migliaio di anni fa anche su Marte esisteva il denaro; però il sistema non diede dei buoni risultati, in quanto fu causa di molti guai. A quanto pare, c'erano alcuni che tendevano ad accaparrarsi le ricchezze provocando situazioni di grave disagio. Così, i Marziani abolirono il denaro.

Anticipando alcune delle vostre domande, e ammettendo che noi, noi che vi stiamo parlando, non abbiamo le idee molto chiare, possiamo dirvi che, fin dalla più tenera età, pare che i Marziani mettano in conto tutto quello che comprano. Alla loro morte, le autorità fiscali fanno le somme e detraggono le spese dai guadagni dell'intera vita.

Sì, sì, lo sappiamo. State dicendo: "E se uno ha speso più di quanto abbia guadagnato?". E noi potremo solo dirvi, ripetendo per la centesima volta che Marte è diverso, che in tal caso lo risveglierebbero e lo farebbero lavorare in modo da coprire la differenza. Pare che la medicina sia una scienza molto progredita, su Marte.

Ma, per fortuna, il problema del denaro non vi toccherà, in quanto per alloggio, vitto, bibite eccetera pagherete col sistema terrestre.

E, anticipando ancora una volta una questione che senz'altro vi porrete a questo punto, ci limiteremo solo a dirvi, che, nonostante quello che potete pensare adesso, non avrete voglia di mangiare i cibi locali né di bere le bevande locali. Sì, alcuni piatti marziani, ma pochi, sono tali per cui vengono preparati anche negli alberghi di tipo terrestre, dopo essere stati adattati al palato terrestre.

Per esempio, c'è quella specialità che chiamano Tamale Freddo, in quanto presenta indubbiamente dei lati in comune col famoso manicaretto messicano. Però, invece di essere ben condito col pepe rosso detto chili, la versione marziana ha una specie di pepe alla rovescia, che, invece di bruciare la bocca, la raffredda al punto da ghiacciare la saliva; cosa che risulta alquanto sconcertante la prima volta che si degusta quella pietanza. Ma non è certo mangiando cibi marziani che correrete i rischi più gravi. Le bevande sì, che sono sorprendenti, dati i gusti terrestri.

In cima alla lista delle bevande marziane c'è il woji; che è, uh, come si può dire, espanso, più che distillato, da una strana bacca che si contrae nei deserti di Marte. Notate che abbiamo detto "si contrae" non "cresce". Non scenderemo nei particolari biologici della vita vegetale marziana, ma forse è proprio questo fattore che produce gli strani effetti del woji.

Per farla breve, quando sorbirete per la prima volta quel liquido color lapislazzulo, vi verranno una tremenda nausea e un mal di testa, che diminuiranno un po' al secondo bicchiere. Vi sentirete la bocca come il proverbiale fondo di una gabbia d'uccelli, vi sembrerà che vi si spacchi la testa, avrete voglia di vomitare, e non vi importerà più niente di niente. Ma continuerete. Un altro paio di bicchieri vi aiuteranno, ma fino a un certo punto. Comunque potrete berne una pinta prima di cadere barcollando sul letto, sentendovi male come mai vi è capitato in vita vostra.

La domanda che vi farete è: allora, perché bere woji?

E la risposta è che, svegliandovi la mattina dopo, vi sentirete in forma perfetta. Il liquore contiene un ingrediente che funziona al contrario dell'alcol. Prima si soffrono i postumi della sbornia e la mattina dopo ci si sente benone. Bisogna abituarcisi. Ma il woji è per la gente da poco. Corrisponde pressappoco a ciò che è la birra sulla Terra. La bevanda degli dei, secondo il punto di vista marziano, è il nig, e il fatto che sia gin scritto al contrario non significa niente, dato che il nig non assomiglia allo champagne.

Fatto sta che col nig si va molto su di giri. No, no, non fraintendete. Se dico su, vuol dire su, alla lettera.

Bevuto il primo bicchiere, il nig vi accende dentro un delizioso calore, e voi vi sollevate di cinque centimetri da terra. A quanto pare, uno degli ingredienti del nig possiede un effetto antigravitazionale che bisogna provare per credere. Dapprincipio fa uno strano effetto, ma presto ci si abitua e si riesce a mantenere l'equilibrio. Due bicchieri ancora e ci si trova a mezzo metro da terra, tuttavia la situazione è ancora perfettamente sotto controllo. Con tre si arriva a circa un metro e si incontra qualche difficoltà nel raggiungere il bar e farsene versare un quarto. A questo punto cominciano i veri guai. L'atmosfera troppo rarefatta impedisce che su Marte si possano usare gli elicotteri, e quindi potrebbe risultare difficoltoso il salvataggio di un bevitore che avesse ecceduto.

Una volta entrato nell'ordine di idee, vi verrà voglia di vedere qualcosa, e, se avrete letto gli opuscoli turistici, avrete probabilmente l'intenzione di dare un'occhiata a qualcuna delle famose caverne marziane, al cui confronto la Caverna Mammut del Kentucky è roba da ridere. Una cosa, tuttavia, che gli opuscoli turistici tacciono è che dovete stare attenti al dugg. E questa è una delle altre stranezze, incredibili per chi non è mai stato su Marte. Si tratta di una sostanza strana, che dà dei fastidi a chiunque si soffermi a lungo nelle grotte e caverne marziane. Dopo un'ora, circa, di permanenza, v'incominceranno a crescere stalattiti con una rapidità alquanto sconcertante, dal naso, dalle orecchie, dal mento, dalle dita, e, se per uno strano caso siete nudo, anche dalle altre estremità.

Il fatto di essere nudi non è poi così strano come potrebbe sembrare dato che il clima, per mancanza di umidità eccetera è tale per cui il modo di vestire marziano si differenzia molto da quello terrestre. Infatti, le ragazze girano di giorno nell'equivalente marziano del bikini, mentre se vanno in spiaggia si coprono come esquimesi per proteggersi dal sole; e così l'equilibrio è ristabilito.

Le spiagge sono qualcosa da vedere, su Marte. Di certo non avete mai visto simili spiagge, anzi; una simile spiaggia, in quanto Marte è una spiaggia sola. Però manca l'acqua.

Il che ci riporta a un fenomeno a cui avrete per forza assistito prima di lasciare Marsport. I grandi depositi, nelle più profonde depressioni di quelli che "eoni" fa erano gli oceani di Marte, di acqua disidratata. Non c'è niente di simile, sulla Terra. In realtà si è discusso se importarne un poco, per usi agricoli, in posti come il Sahara o il deserto di Gobi. L'acqua secca, come la chiama qualcuno, presenta svariati vantaggi. Intanto, la si può trasportare senza fatica in secchi di tela. La si potrebbe poi adoperare per lavare quegli animali, che, come i gatti, detestano l'acqua.

C'è ancora un aspetto della vita marziana che non abbiamo ancora osato trattare. Parliamo delle donne marziane. Negli ultimi anni, in America, la censura è diventata molto meno rigida. Anzi, dato che i romanzi di Henry Miller si trovano in edizioni economiche in tutte le edicole, per non parlare delle dilettevoli "pin-ups" che si possono liberamente spedire con le poste dello Zio Sam, si può dire che la censura non esiste più. Però, ci sentiamo le mani legate. Non possiamo proprio correre il rischio che questa rivista venga sequestrata, descrivendo in che cosa consiste la differenza fra le ragazze marziane e quelle terrestri, e questo ci porta a...

Oh, già, ancora un'ultima cosa. Non badate alle scritte TERRESTRI, TORNATE A CASA! che vedrete su tutti i muri. Quei Marziani ignorano cosa significhi gratitudine. Dopo aver liberato il pianeta, la Terra ha garantito di aiutarlo per vent'anni finché la sua economia non si sia stabilizzata.

 

Le strade di Ashkelon

The Streets of Ashkelon

di Harry Harrison

New Worlds (G.B.), settembre

 

Harry Harrison debuttò sulle riviste di fantascienza nel 1951 e, da allora, ha consolidato la sua fama di eccellente scrittore di storie d'azione e di avventura. Ma Harrison è anche l'autore molto apprezzato di The Stainless Steel Rat (1961) e dei suoi numerosi seguiti, romanzi che, percorsi da una straordinaria satira sociale, hanno riscosso il consenso di un vasto pubblico. Bill, The Galactic Hero (1965) è la risposta di Harrison ai protagonisti super-efficienti delle storie di Robert A. Heinlein. Degno di nota è anche il suo Make Room! Make Room! (1966), da cui fu tratto il film Soylent Green, con Charlton Heston ed Edward G. Robinson.

"Le strade di Ashkelon" (conosciuto anche con il titolo di "An Alien Agony") è un classico esempio di racconto che fu giudicato troppo pericoloso, per i suoi contenuti, dalla maggior parte degli editori di fantascienza degli anni '60. Per questo motivo, dopo essere stato rifiutato dalle principali riviste americane apparve sulle pagine del periodico inglese New Worlds.

 

Dietro la perenne coltre di nubi, un tuono ruggì, minacciando di divorare il cielo del Mondo di Wesker. Il mercante John Garth si fermò di colpo e sollevò lo sguardo...

— È lo stesso rumore che fa la tua nave-celeste — disse Itin con stolida logica weskeriana, polverizzando lentamente il concetto nella sua mente e concentrandosi sui singoli frammenti di pensiero per un esame più attento. — Ma la tua nave è ancora ferma nel punto in cui sei atterrato. Non può che essere così anche se noi non la vediamo, per il fatto che tu sei il solo in grado di guidarla. E, nel caso in cui qualcun altro fosse capace di farlo, l'avremmo sentita salire verso il cielo. Poiché non è stato così, e posto che quello che abbiamo sentito fosse il rumore di una nave-celeste, significa che...

— Sì, che si tratta di un'altra nave — tagliò corto Garth, troppo assorbito dai suoi pensieri per aspettare che il faticoso processo della logica weskeriana completasse il suo corso...

— Sarà meglio che tu vada avanti, Itin — riprese il mercante. — Prosegui via acqua in modo da arrivare al villaggio al più presto. Dì a tutti di ritirarsi nelle paludi, lontano dalla terraferma. La nave effettuerà un atterraggio strumentale e di tutto quello che incontrerà sulla sua strada, nel momento in cui toccherà terra, farà frittelle.

Il piccolo anfibio capì al volo la gravità della minaccia e, prima ancora che Garth avesse finito di parlare, aveva piegato le orecchie costolate a guisa di ali di pipistrello ed era scivolato silenziosamente nel vicino canale. Garth proseguì a piedi nella melma appiccicosa, cercando di camminare il più velocemente possibile. Aveva appena raggiunto i limiti della radura in cui sorgeva il villaggio, quando il ruggito si trasformò in un rombo assordante e la nave squarciò la coltre di basse nuvole sopra di lui. Garth si protesse gli occhi dalla lingua di fuoco che lambiva quasi il terreno ed esaminò la sagoma sempre più grande dell'apparecchio grigio-nero con sentimenti contrastanti.

Viveva da quasi un anno sul Mondo di Wesker e dovette combattere il desiderio di compagnia umana che istintivamente provò. Mentre quel frammento sepolto di spirito del branco valeva per il resto della tribù di scimmie, la sua mente di mercante si preoccupava di tracciare una linea sotto una colonna di cifre e di fare la somma. Poteva tranquillamente trattarsi della nave di un altro mercante e. se lo era, avrebbe segnato la fine del suo monopolio commerciale su Wesker. Però, era anche possibile che non si trattasse di un mercante e quella era la ragione per cui si era nascosto sotto una felce gigantesca e aveva impugnato la pistola.

Con il calore dei motori, la nave aveva prosciugato cento metri quadrati di palude. Il ruggito si smorzò fino a spegnersi e i sostegni metallici d'atterraggio affondarono, scricchiolando, nella crosta secca che si era formata sul terreno. A poco a poco, la nuvola di fumo e vapore che circondava lo scafo si disperdette nell'aria umida.

— Garth, dove sei? — tuonò una voce dall'altoparlante della nave. La struttura dello scafo gli era subito apparsa vagamente familiare, ma sul tono stridulo di quella voce non poteva avere dubbi. Garth sorrideva quando uscì allo scoperto e, dopo essersi infilato due dita in bocca, produsse un fischio penetrante. Un microfono direzionale uscì dal suo alloggiamento sul piano di deriva del velivolo e si inclinò nella sua direzione.

— Che cosa ci fai qui, Singh? — urlò Garth verso il microfono.

— Sono diretto verso un mondo con un'atmosfera migliore, dove ci sono le condizioni ideali per fare fortuna. Mi sono fermato qui soltanto perché mi si è presentata l'occasione di guadagnarmi un posto in paradiso facendo un servizio di taxi. Ti ho portato compagnia, il miglior genere di compagnia che tu possa desiderare: quella di un uomo impegnato in un diverso ramo commerciale, che potrebbe addirittura aiutarti nei tuoi affari. Sarei sceso a salutarti volentieri, ma mi sarei dovuto sottoporre a una decontaminazione biologica. — Sto facendo sbarcare il mio passeggero attraverso la camera stagna, per cui spero non ti dispiaccia aiutarlo con i bagagli.

Garth aveva appurato che non avrebbe avuto concorrenti sul pianeta, quindi non aveva più motivo di preoccuparsi. Ciò nonostante non poteva fare a meno di domandarsi chi mai potesse essersi imbarcato su un viaggio di sola andata per un mondo disabitato. E poi, che cosa significava quella mal celata vena di ironia nella voce di Singh? Fece il giro della nave per raggiungere il portello dal quale era scesa la scaletta e, quando sollevò gli occhi, vide un uomo alle prese con una grande cassa da imballaggio. Quando lo sconosciuto si voltò verso di lui, Garth notò che indossava il collare bianco dei sacerdoti e allora capì la ragione dell'ilarità di Singh.

— Che cosa è venuto a fare qui? — domandò Garth. Nonostante il suo tentativo di autocontrollo, il tono della domanda risultò brusco, aggressivo. Ma se l'altro se ne era accorto, non lo diede a vedere, anzi continuò a scendere la scala sorridendo e porgendogli la mano.

— Fratello Mark — disse — della Società Missionaria dei Fratelli. Sono molto lieto di...

— Le ho chiesto che cosa è venuto a fare qui — ripeté Garth, ma con tono calmo e distaccato questa volta. Sapeva quello che doveva fare e doveva farlo subito o mai più.

— Mi sembra ovvio — replicò Fratello Mark, conservando il suo buonumore. — Per la prima volta la nostra società missionaria è riuscita a raccogliere i fondi per inviare i suoi emissari spirituali nei mondi alieni. Io sono stato così fortunato da...